Capitolo 12.

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ROMA, 1978.

Il cielo, azzurro e soleggiato, che ricopriva la città di Roma in quel giorno di marzo era soggetto allo sguardo di Gabriele. Quella era un'abitudine consolidata del ragazzo: che fosse di notte o che fosse di giorno adorava perdersi nella volta celeste. Era affascinato dalla particolarità di essa: nonostante la solitudine che poteva pervadere l'individuo che dedicava il suo tempo ad ammirarla, al contempo, si ritrovava affine ad un numero sproporzionato di persone che non stavano facendo altro che contemplare lo stesso cielo.
<<Gabri! Gabri!>>
Il rosso si voltò nel sentire urlare il suo nome. Come aveva previsto, ritrovò davanti a sé la piccola Lisa. Un grande sorriso si espandeva sul suo volto facendo innalzare le gote arrossate per la corsa appena fatta. Con le sue mani minute teneva una busta, facendola sventolare allegramente.
<<Guarda cosa Edo ha dato alla mamma. Delle tele e dei pennelli nuovi!>> la piccola si sedette sulla sua solita seduta, ponendo ogni regalo del fratello sul tavolo del proprio balcone.
Gabriele sforzò un sorriso alla gioia di Lisa, ma non riuscì ad evitare, anche quel giorno, quella tristezza che, solo al sentire quel nome, si instaurava dentro le sue ossa, dentro il suo petto. Nonostante ormai la sua abitudinaria assenza in quelle giornate, si sentì sconfitto, poiché, per quanto potesse sembrare assurdo, ancora dentro di lui si celava una speranza nel vedere il volto del biondo in uno di quei pomeriggi.
<<Che fai? Non vieni qui?>> la piccola inclinò un po' il volto per richiamare l'attenzione di Gabriele.
Quest'ultimo annuì semplicemente e scavalcò il muretto che divideva i due balconi adiacenti.
<<Anche a me manca, ma sono certa che questa brutta influenza passerà velocemente.>> Lisa sorrise dolcemente al ragazzo.
Gabriele avrebbe voluto tanto sbuffare divertito alle sue parole.

Divertimento, ecco, quella era la parola adatta nel descrivere ciò che gli procurava la scusa che Edoardo aveva inventato pur di non presentarsi alla clinica. All'inizio ci credette, chiaramente, perché non poté mai pensare che Edoardo pur di non vederlo avrebbe rinunciato ai suoi incontri con la sorella. Dunque, aspettò la sua guarigione. Fremeva nel pensare al loro prossimo incontro. Avrebbe voluto sapere se anche lui avesse percepito quei sentimenti che in maniera indescrivibile si impossessarono del suo corpo quella notte, avrebbe voluto sapere se anche lui lo avesse pensato per tutta la mattina seguente, se anche lui si fosse sentito così bene. Così, ogni pomeriggio nella sua solita seduta attendeva il ragazzo biondo. Non sapendo, però, che ogni giorno lui non si sarebbe presentato.
Nonostante il trascorrere dei giorni, non si demoralizzò. La sua mente inspiegabilmente non accettava uno scenario simile. Si rifiutò di pensare che in qualche modo non potesse esistere quella sua influenza. Non era sciocco, era cosciente che le persone potessero deludere, perfino le più care. Ma rinnegò in ogni modo che lui potesse far parte di esse, perché ai suoi occhi, alla sua mente e al suo cuore Edoardo Conti non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere.
Eppure, questa forte convinzione si sgretolò in una delle sere passate. Pioveva a dirotto ma, se solitamente Gabriele sarebbe ugualmente rimasto fuori ad osservare la notte, quella volta non lo fece per la paura di ammalarsi e non poter vedere Edoardo alla sua guarigione. Ciò non gli impedì di ritrovarsi dietro la finestra, non fu di certo la stessa cosa, ma non si sarebbe permesso di mettere a rischio l'incontro con il biondo. Ma fu proprio quella sera che lo vide. Edoardo scavalcò la ringhiera del balcone della sorella, si avvicinò alla finestra della piccola e la guardò. Poi, si voltò, non dando neppure uno sguardo verso la stanza di Gabriele e, così, se ne andò.
Il rosso non seppe decifrare quanto tempo Edoardo impiegò a fare ciò, seppe solo descrivere il vuoto che dentro di lui percepì. Edoardo era in ottima salute. No, non aveva alcuna influenza.
Rimase immobile, non proferì una parola. Si sentì ferito. Non fu la prima volta che un qualcuno procurava in lui una profonda delusione, anzi, forse ne era pure abituato. Ma quella volta, in quella notte piovosa, realizzare che lui rappresentava il nulla per una persona che significava tutto, lo uccise silenziosamente.
Gabriele si sforzò nuovamente, sorrise e pronunciando qualche parola di conforto iniziò a dipingere con la piccola Lisa.

Ti chiedo di amare la vita. Where stories live. Discover now