Capitolo 1.

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ROMA, 2024

Come si chiama quella voglia di portare indietro il tempo, proprio come se fosse un nastro registratore, pur essendo consapevoli che ciò non possa essere minimamente possibile? Era proprio quello che si domandava Sveva, nel mentre guardava la casa di quando era bambina venir svuotata da ogni suo mobile e da ogni suo ricordo. Era quello il desiderio che bramava il suo cuore addolorato dal dover vendere quel piccolo rifugio della sua infanzia, lì dove la madre era deceduta pochi giorni prima. E, così, stava seduta sul freddo parquet con un fazzoletto umido di lacrime stretto tra le mani ed il volto stanco di chi non dormiva da giorni. Sospirò alla vista dell'ennesimo mobile portato via. Della madre le sarebbero rimasti così soltanto quegli scatoloni contenenti i suoi vestiti e qualche foto.

Sentì una morsa al petto, dettata da una profonda nostalgia del suo profumo; pertanto, decise di aprire una di quelle scatole. Con le dita iniziò a sfilare il nastro adesivo in modo veemente, ricevette sguardi di compassione dagli uomini che continuavano a traslocare i mobili, ma non se ne curò. Continuò a conficcare le sue unghie, non badando perfino al dolore che provava, fin quando quel dolce profumo, che tanto caratterizzava la madre, tornò ad inebriala, provocandole una dolce sensazione di sollievo. Sorrise tristemente, perdendo il suo sguardo assorto all'interno del pacco. Aggrottò le sopracciglia alla vista, sulla pila dei vestiti ben ripiegati, di un romanzo rilegato grezzamente. La madre non era un'appassionata di letteratura, anzi, era un medico credente all'unica fede della scienza, molto devota al suo lavoro che non avrebbe perso tempo dietro alcun volume di saggistica o di narrativa. Le mani di Sveva, ancora arrossate dallo sforzo precedente, presero il libro. Scintille, ripetè il titolo nella sua mente. Lo aprì, facendo sfuggire un piccolo foglietto. "A lei, Dottoressa, un piccolo gesto da considerar ignobile rispetto alla mia profonda gratitudine." Sveva lesse le parole d'inchiostro un po' sbiadito. Appoggiò le spalle al muro di quella stanza spoglia che una volta era il suo salotto e sfogliò la prima pagina.

Da quel momento smise di osservare ogni singolo mobile portato via, non si curò degli operai che conclusero il loro lavoro e lasciarono la casa, non pensò perfino all'imbrunirsi del cielo di Roma, se non per accendere la luce, e neppure al marito che attendeva il suo arrivo per quella che era ormai divenuta l'ora di cena. Non distolse lo sguardo dalla sua lettura, rapita dalla narrazione, per nessun motivo. Pagina dopo pagina il suo sguardo farneticante passava su ogni parola fino all'ultimo punto. Chiuse il libro. Sospirò. In quel momento tutti i suoi problemi svanirono, aveva solo un pensiero: quella storia meritava di esser letta da una persona e lei non poteva impedire ciò. Si alzò dalla posizione che aveva mantenuto per svariate ore, le gambe difatti le dolevano ma non ci pensò. Prese le chiavi, spense le luci e uscì di casa.

Ti chiedo di amare la vita. Where stories live. Discover now