Capitolo 33 (Arielle - Presente)

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Mi tastai l'acconciatura con una smorfia di fastidio. Ogni ciocca era così tirata e attaccata stretta al cuoio capelluto da provocarmi dolore.

Con il polpastrello, tastai l'estremità appuntita di una forcina e feci pressione fino a quando non sentii la pelle bucarsi.

Fui tentata di sfilarmela dalla testa e usarla per strapparmi quell'orrore di seta bianca, che mi stringeva dalla gola fino alle caviglie.

L'avevano scelta bene la loro trappola. Non potevo muovere nemmeno un passo più lungo di due centimetri.

Dovevano assicurarsi che non ti venisse in mente di scappare dall'altare all'ultimo secondo

Mi parve che il materiale attorno alla gola si animasse di vita propria e mi stritolasse un po' di più. una malvagia estensione della malvagia anima del mio malvagio promesso sposo.

Mi portai la mano davanti alla faccia. Il bocciolo scarlatto affiorato sul mio polpastrello si stava disfacendo lungo le linee del mio palmo. Ne fui ipnotizzata. Mi pulii la mano sul petto, lasciando il marchio di quello che mi avevano fatto, nel punto in cui la seta si stringeva per togliermi il respiro.

Volevano che mi stendessi sull'altare sacrificale? Bene, ma l'avrei fatto mostrando a tutti chi erano i miei carnefici e nel frattempo avrei pianificato la loro distruzione.

Avessi dovuto passare il resto della mia vita a non fare altro, avrei trovato quei documenti. E forse, una volta trovati, sarei riuscita a farmi perdonare da Raphael.

E magari riuscirai a perdonare anche te stessa

"Mi stai uccidendo. Lo capisci?"

Il singhiozzo mi squassò il petto. Mi piegai su me stessa e mi avvolsi le braccia intorno allo stomaco, nel tentativo di tenermi insieme.

Mi ero vietata categoricamente di ripensare al suo sguardo devastato quando gli avevo detto di andare via.

L'apatico vuoto in cui ero vissuta in tutti quegli anni mi aveva terrorizzata davvero solo quando l'avevo scorto negli occhi dell'uomo che amavo

Quando rimanere accanto al letto di mia madre mi aveva fatto impazzire, avevo trovato il modo di trascinarmi dentro quelle ore per impedirmi di perdere completamente la testa. Ero rimasta ferma per cinque minuti a guardare il mio riflesso nella macchinetta del caffè, quando avevo sentito due infermiere parlare dei nuovi bambini ricoverati al reparto pediatrico. Senza pensarci due volte, avevo chiesto se avessero bisogno di una volontaria. L'avevo fatto principalmente per tenermi così occupata da non pensare, ma erano bastate poche ore in compagnia di quei bambini, tra disegni e castelli di mattoncini di plastica, per far nascere in me la speranza che, forse, la mia vita non era stata del tutto sprecata.

Ed erano bastati pochi minuti davanti a uno specchio, in un abito da sposa macchiato di sangue, a crivellare di colpi quella speranza.

Una mano delicata colpì la porta due volte. Ne osservai il riflesso dallo specchio, tanto drenata di umanità da non provare nemmeno curiosità per chiunque ci fosse fuori.

Non c'erano orologi nella lussuosa stanza del Pavillion, dove non più tardi di quella sera, Xander avrebbe sancito la sua vittoria definitiva su di me. Il mio respiro era l'unica cosa in grado di scandire il tempo.

Erano venuti a prendermi per condurmi al patibolo.

«Avanti.»

Lì al Pavillion, la perfezione era la base di partenza per raggiungere l'eccellenza. Nemmeno le porte cigolavano.

Chissà che avrebbero pensato gli ospiti delle fondamenta marce.

«Ehi, sono venuto a vedere come va.»

Angel Of RageOnde histórias criam vida. Descubra agora