Capitolo 9 (Raphael - Presente)

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Nelle parole "stare bene" non c'era un concetto assoluto di benessere. Chi poteva dire di stare realmente bene? C'era sempre qualcuno che stava meglio di te e messo in quella luce, il tuo stare bene non era più questa gran cosa. 

"Stare bene" era un concetto puramente oggettivo, non poteva essere paragonato a nient'altro e l'unico metro di giudizio eri tu e tutti quei momenti che avevi messo in due penose scatole di cartone che portavano stampate sopra etichette con su scritto: sto bene, sto uno schifo.

Quella mattina non mi sarei spinto a dire che stavo bene, c'era ancora una pressione dolorosa a premermi sulle palpebre e un vago senso di acido nello stomaco, ma rispetto ai giorni precedenti, non sentivo più bruciare nei muscoli quella dannosa elettricità che mi aveva divorato vivo, finché non ero riuscito a darle sfogo sul ring. Per un'ora non ero stato altro che rabbia furiosa e pugni, persino il pugno che il mio avversario mi aveva assestato sul mento quando mi ero distratto a guardare tra la folla, lo avevo accolto con gratitudine. Quello scoppio bianco di dolore mi aveva svuotato la testa dalla sensazione di essere osservato.

Certo che ti senti così. Ti osservano tutti.

Mi ero detto, ma non era stato proprio così. Un'energia magnetica aveva attirato il mio sguardo su quella buia anonima marea che mi circondava. Il tempo di percepirla ed era già sparita e quattro potenti nocche si erano abbattute sulla mia faccia.

Il sesso con Christabel, una delle bariste del Cove, non mi aveva portato nessuna soddisfazione. Mi ero sfogato sul suo corpo compiacente come lo avevo fatto sul ring, con l'obbiettivo di cancellare dalla mia mente qualunque cosa fosse avvenuta prima di quel momento. Se chiudevo gli occhi potevo ancora vedere il ghigno di sfida con cui Arielle mi aveva pugnalato al ristorante, prima di voltarsi e mettere le tette in faccia a mio padre. Una minuscola, razionale parte di me, una parte che normalmente occupava uno spazio maggiore nella mia coscienza, mi aveva fatto presente che lei lo aveva fatto solo per ripicca nei miei confronti e che avrei dovuto godere del fatto che mentre mostrava le tette al suo futuro marito aveva me nella testa, e magari persino davanti agli occhi.

Marito.

Ringhiai a denti stretti e l'ennesimo pezzo di cartoleria andò in pezzi nella mia mano.

«Se è un brutto momento passo più tardi.»

Beccato nel mezzo del mio sfogo, riaprii gli occhi infuocati piantandoli sull'invasore. 

Dominic Maxwell aveva appena oltrepassato la soglia e suo merito andava detto che non c'era niente di allusivo nella sua espressione. Il viso era cordiale, ma compassato e professionale, particolarmente segnato dalle rughe dovute all'età, e non avevo udito sarcasmo nella sua domanda. Quella gentilezza e professionalità lo avevano indotto a ignorare la penna spezzata nella mia mano, come non fosse avvenuto sotto i suoi stessi occhi. Certo, era stata una perdita di controllo contenuta, niente di paragonabile alla furia con cui avevo spaccato la faccia al mio avversario ieri sera, ma quelle detonazioni, per quanto infinitesimali, appartenevano a me. Non apprezzavo che gli altri le vedessero.

Misi via la penna, decidendo di adattarmi alla sua linea di condotta, bollandola come qualcosa che non era mai accaduto. Gli indicai la sedia con un cenno. «Niente affatto. Accomodati pure, Dominic.»

Prese posto accennando un breve ringraziamento intanto che io puntavo lo sguardo rapace sui fogli plastificati che stringeva tra le mani. Era ovvio che il braccio destro di Myers, non che futuro vicepresidente se le elezioni avessero dato esito positivo, si presentava nel mio ufficio con un fascicolo da sottopormi. Le nostre tabelle giornaliere grondavano impegni e nessuno dei due poteva permettersi di perdere tempo per il gusto di farlo. Il mio tempo libero era un privilegio riservato esclusivamente alla mia famiglia.

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