II

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Capitolo 2

Poi però, arrivò Aslan.
Svogliato ed indifferente.
Lo vidi per la prima volta intento a salire i gradini scricchiolanti, con le mani in tasca ed una sigaretta spenta in bocca.
Una delle tante suore gliela strappò via, ma appena entrato in camera, nella mia camera, ne prese un’ altra, questa volta però l’accese.
Si presentò a me pronunciando il suo nome, mi porse la mano, la strinsi indifferentemente.
Esordii il mio nome, dopo poco, così da  interrompere il silenzio.
Continuò a ripeterlo, più e più volte, come se volesse memorizzarlo per bene.
Mi sedetti sul letto, presi un libro e mi misi a leggere, perché in soggezione, ma i miei occhi e la mia curiosità si spinsero oltre il libro dalle pagine ingiallite.
Lunghe ciglia, labbra carnose, occhi verdi,mascella ben definita.
Mi addormentai poco dopo.
La mattina seguente lo trovai davanti lo specchio lungo e stretto presente in camera.
“Dov'è il bagno?”
“Esci dalla camera, a sinistra, in fondo.”
Mi ringraziò con disinteresse.
Andò via, lasciandomi solo, in quel lasso di tempo misi una camicia pulita e sistemai i capelli.

“Quindi qui pisciate tutti insieme?”
Aggrottai le sopracciglia e accennai un sorriso, poi vidi che era serio.
“Si… ci farai il callo.”
Non parlavamo, non avevamo nulla da dirci.
Solo frasi di circostanza.
Fa caldo oggi!
Buongiorno.
Buonanotte.
Hai degli appunti di italiano?
Hai preso tu il mio quaderno?

Ma avevo il privilegio di poterlo salutare, di sfuggita, quando per caso ci vedevamo in corridoio o nella sala comune, anche se però come un senso di vergogna mi assaliva quando con voce rauca rispondevo ad un suo cenno della testa.

Ma in quel momento, non potevo pensare al rapporto strano ed imbarazzante tra di noi, pensavo di andare via e raggiungere Samuel,

Ma alla fine, diversamente da come credevo, tutto prese un' altra piega, ma solo grazie a lui.
Quella sera di maggio, seduto sul mio letto teneva dei fogli in mano, sorrise nel vedermi incuriosito sulla soglia della porta.
Chiesi cosa fossero ma non rispose, alzò solo le sopracciglia, così mi avvicinai.
"Quindi vuoi andare via"
Teneva i numerosi fogli su cui da tempo trascrivevo le mie idee e disegnavo la mappa dell' orfanotrofio.
"Secondo te?"

Abbassò la guardia per potermi osservare così gli strappai le numerose pagine dalle mani.
Sussultò, poi tornò a me.
Avevo appena fatto la doccia, sentivo ancora la pelle umida, sotto i vestiti e sulle braccia leggermente scoperte,.
Mi osservava mentre concentrato riguardavo ciò che poco prima ero riuscito a togliergli dalle mani.
"Da quanto sei qui?"
"Sette anni, mi sembra"
"Cristo... sette anni qui, tra questi pazzi?"
"Se il problema fossero solo loro..." Risi.
Tornai serio.
"Chi ti ha detto che potevi rovistare tra le mie cose?" Mi abbassai per raccogliere i fogli a terra e fare un malloppo unico che successivamente avrei appoggiato sul comodino.

"Portami con te"
"Come?"
"Andiamo via insieme...alla fine può solo esserti d'aiuto qualcuno vicino"
Mentre, mi ero alzato per guardarlo in faccia, lui come  se niente fosse estrasse dalla tasca una sigaretta e la accese, inalò il fumo e successivamente lasciò che mi arrivasse in faccia.
"Non so, ci penso." Presi la sua sigaretta e la portai alle labbra.
Non volevo che si prendesse tutta questa confidenza, era impertinente e pretenzioso, lo lasciai sperare per un po' anche se sapevo già quale sarebbe stata la mia risposta:
"Ci ho pensato e credo tu possa essere utile, sembri sveglio." E fu proprio ciò che gli dissi il giorno dopo.
In ogni caso, dopo quel giorno le cose presero una piega diversa, divenni suo amico, ero molto simile a me, più di quanto mi aspettassi.
Passavamo le giornate a parlare di musica e film.
Lui insegnava ciò che sapeva a me e viceversa.
Imparai molte cose, attraverso i suoi tipici racconti della mezzanotte.
Senza preavviso, mi chiamava e con il cuscino tra le braccia prendeva a parlare, nel buio, a stento distinguevo la sua sagoma, ma la sua voce sempre candida, arrivava al mio orecchio.
Inizialmente sembrava strano quel suo parlare, immerso nella penombra, poi iniziai ad abituarmi, a lui e alle sue storie.
Mi piaceva ascoltarlo, mentre lo osservavo, cercando di distinguere i tratti del suo volto.
Poi improvvisamente mi chiedeva di parlare ed io rispondevo a stento, tutte quelle cose non mi riguardavano, non potevo mettere parola.
Ricordo quando una volta mi raccontò di come coltivare “in modo bio”.
Mi spiegò che produrre alimenti con processi naturali e senza fertilizzanti artificiali sarebbe stato più sostenibile, e ad esempio avrebbe ridotto i gas serra.
Non sapevo se avesse ragione o meno, infatti non dissi nulla, ma nel tempo imparai a fidarmi di lui, delle sue ipotesi e delle sue parole, così come lui che aveva imparato ad ascoltarmi quando gli dicevo di non agire in un determinato modo.
Avevamo creato un mondo tutto nostro, dove le sue storie e la mia esperienza all' interno dell' orfanotrofio si intrecciavano perfettamente, così come noi, quella sera di inizio giugno.
Poche erano ormai le sigarette rimaste, ma ne stavamo fumando una di quelle, in camera, mentre ci arrangiavamo, passandocela a turni.
Un tiro io ed uno lui.
La stanza era ormai piena di fumo.
Mi comandò di levarmi dal suo letto, ma mi rifiutai giustificandomi
“Prima era il mio.”
Si mise accanto a me, con la schiena poggiata al muro.
“E perché hai cambiato?”
Sapevo cosa era successo su quel letto, qualche anno prima, ma mi limitai a dire: “È scomodo. ”
“Ah sì? Quindi lo stronzo con il letto scomodo adesso sarei io?”
Iniziai a ridacchiare, finii per soffocare col fumo.
Mi spinse e assecondai il suo gesto sdraiandomi.
Mi strappò la sigaretta dalla mano.
Poggiai le gambe sulle sue e fissai il soffitto per un po' prima che la porta si spalancasse.
Una delle tante suore, ci fissava, proprio sulla soglia della porta, con un' aria seria.
Poi si avvicinò a noi, immobili, ancora fermi come prima, lui seduto ed io sdraiato.
Tolse la sigaretta ad Aslan e silenziosa andò via.
Dopo poco ci chiamarono per andare nell' ufficio di Suor Elisabetta.
Ci fecero entrare uno alla volta, prima me, poi lui, così come lui aveva aspettato me, io aspettai lui.
Uscì dalla stanza, non proferì parola, cercai di farlo parlare ma non lo fece.
Tornati in camera notai quanto fosse paonazzo.
“Così come per il bagno, dovrai abituarti anche a questo” mugugnai vicino a lui.
Si gettò sul letto.
Senza chiedere mi sedetti accanto a lui e gli alzai la maglia.
Probabilmente la schiena era ormai rossa e lacerata, ma non riuscii a vederla perché scattante si girò verso di me bloccandomi il polso.
Non sapendo che fare rimasi in silenzio, a guardarlo, lui fece lo stesso, poi senza accorgermene, lo ritrovai stretto a me.
Aveva sprofondato il volto nel mio petto.
Non piangeva.
Ma qualcosa lo aveva portato ad abbracciarmi.
Magari il dolore o magari il suo modo brusco di afferrarmi lo aveva fatto sentire in colpa.

In ogni caso, di quella sera nessuno dei due disse più nulla.



Durante i corsi pomeridiani (avevamo scelto entrambi pittura) rubavamo dei tubetti di colore e li portavamo con noi.

Una sera Aslan propose di usarli e dipingere.

"Sai disegnare?"

"Credo di si..."

"Disegna sulla mia schiena, ciò che ti pare."

Si tolse la maglia e si gettò sul letto, con il volto immerso nel cuscino.

Le spalle larghe, leggermente abbronzate, lisce e lucide mi bloccarono un attimo, poi mi misi a lavoro.

Sotto una luce calda e soffusa, con le mani sporche di colore blu, con un venticello fresco che entrava dalla finestra socchiusa e con il rumore delle cicale nelle orecchie.

Disegnai un sole, intrecciato perfettamente con una luna blu e azzurra.

Poi propose di fare lo stesso a me.

Ma rifiutai, a causa delle cicatrici.

Ma dissi semplicemente "Non ho voglia."

Non mi pregò, o cose simili, semplicemente mise tutto al proprio posto e andò a dormire.

Ricordo invece quando una sera, durante la "serata cinema" (serate organizzate per l'intrattenimento dei più piccoli, a cui però eravamo costretti a partecipare anche noi) andai via, senza dire nulla.

Lui invece mi seguì, mi trovó davanti lo specchio del bagno, con le lacrime agli occhi.

Quel film, lo avevo visto molti anni prima con papà e mamma, pensare a loro mi faceva stare male, così come quella sera.

Si avvicinò a me e mi abbracciò.

Lo allontanai, spingendolo.

Asciugai le lacrime e sospirai.

Farmi vedere così, non avrebbe di certo migliorato il suo modo di percepirmi.

Mi girai di nuovo verso di lui.

La luce della luna entrava dalla finestra, colpiva perfettamente il suo volto, preoccupato e comprensibile.

Entrambi ci accovacciammo a terra, con la schiena contro il muro freddo.

Portò un braccio attorno alle mie spalle e mi avvicinò a lui.

Poi canticchiò quella canzone e sorrisi.

Dopo quella sera lo vidi diversamente, aveva intenzione di prendersi cura di me, come aveva fatto Samuel.

Avere qualcuno che si prendesse cura di me, non era per niente una cattiva idea, anzi, dopo anni passati a cavarsela da solo, avere qualcuno al mio fianco, non mi avrebbe fatto male.

La settimana dopo finalmente riuscimmo ad andare via

SimbiosiWhere stories live. Discover now