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Mio padre mi aspettava fuori dall'aeroporto. Lo riuscii a scorgere non appena le porte automatiche si aprirono, mostrandomi il suo profilo allungato e i suoi occhi impazienti di vedermi. Dopo esserci abbracciati, mi sfilò il borsone dalle mani preoccupandosi di portarlo fino alla macchina.

Era un uomo di poche parole e non ci trovavamo molto spesso a conversare. Questo però non faceva di lui un uomo arido o insensibile. Al contrario di quello che si poteva pensare, mio padre nutriva un profondo amore nei miei confronti e lo capivo dai suoi occhi e dal modo silenzioso con cui agiva costantemente nel rendermi felice.

Una volta entrati in macchina, dopo aver impugnato il volante, si voltò per un istante verso di me e mi chiese di com'era stato il viaggio. Era una di quelle domande che si fanno per necessità, per volere di conversazione quando il silenzio diventa troppo assordante.

«È stato lungo.» Evitai i suoi occhi, guardando fuori dal finestrino. Non volevo potesse percepire la tristezza che si era dipinta sul mio viso.

«Felice di essere tornato?»

«Sí!» Abbozzai un sorriso mentendo a me stesso, più che a lui, come se non ammettendo di essere sull'orlo della sofferenza, in qualche modo mi avrebbe aiutato a placare il dolore che cominciava a farsi strada dentro di me dal momento in cui avevo detto addio a Daniel.

Arrivammo a casa, un villino indipendente che dava sul mare. Quando scesi dalla macchina notai come tutto, a differenza mia, era rimasto identico a come lo avevo lasciato.

Il cielo terso, l'odore di salsedine, l'umidità che si appiccica sulla pelle e il suono delle onde che si frastagliano sugli scogli.

Una volta dentro casa avvertii all'istante l'odore tiepido, mielato e fresco delle Eriche e delle Ginestre che mia madre coltivava in veranda.

Posai lo zaino per terra e corsi ad abbracciare Nonno Stè che si trovava seduto al tavolo della sala da pranzo. Subito dopo mia madre uscì dalla cucina. Il grembiule da cucina legato ai fianchi e le lacrime agli occhi. Mi strinse così forte che credetti di soffocare tra le sue braccia.

Volle sapere tutto delle settimane passate in Inghilterra, nonostante fosse sempre rimasta in continuo aggiornamento grazie alle telefonate giornaliere che avevo rigorosamente rispettato di fare.

Gli raccontai della città, dei bellissimi quartieri di Londra, della scuola e persino di Daniel, dipingendolo semplicemente come un buon amico e omettendo tutte le parti che non mi sarei potuto permettere di raccontare.

Mia madre, dal canto suo, non vedeva l'ora di raccontarmi delle novità del quartiere mentre io fingevo di essere interessato soltanto per compiacerla.

«Ce l'hai presente la figlia della Mancini, no?» Mi disse mentre mi portò in bocca uno spaghetto per chiedermi conferma sul livello della cottura.

«Certo... Ancora un minuto.» Risposi.

«L'altra sera, il figlio del panettiere le ha chiesto la mano. Si sposano!» Mi sussurrò come a confessarmi un crimine.

Dopo poco ci sedemmo a tavola per il pranzo e quando presi posto mi parse di scovare il ciuffo dei capelli di Daniel assieme al verde dei suoi occhi, di fronte a me.

Sapevo benissimo che il suo fantasma mi avrebbe accompagnato a lungo.

Non appena finii di mangiare mi congedai dirigendomi in camera mia. Mi trascinai nella stanza con il borsone e lo zaino che lasciai per terra ai piedi dell'armadio e mi buttai sul letto indossando ancora la sua felpa.

L'avevo messa la mattina, dopo che la notte prima, lottando all'ultimo sangue con il mio imbarazzo, ero riuscito a convincere Daniel ad indossarla per un po' così da impregnarla del suo odore.

«Credi a quel vento?» Gli chiesi quando ci demmo un ultimo saluto dentro il bagno dell'aeroporto di Londra. Prima di rispondere, mi spinse contro il muro e cominciò a baciarmi dappertutto, i suoi fianchi contro i miei e le sue braccia cinte sulla mia vita, che quasi mi sollevavano da terra.

«Adesso si.» Sorrise scompigliandomi i capelli con una mano.

Nella mia stanza c'era silenzio. Tanto silenzio a cui non ero più abituato. Non sentivo più le auto passare da fuori la finestra del quartiere di Fitzrovia di Londra, né il chiacchiericcio dei passanti.

Chiusi gli occhi e immaginai Daniel nuovamente davanti a me. Le sue labbra morbide, le vene azzurrine sotto i suoi occhi, le sue ampie spalle e le clavicole sporgenti. I suoi addominali, la sua voce che sussurra il mio nome all'orecchio e le sue mani che stringono i miei fianchi facendomi trasalire.

Non riuscii a trattenere il pianto così affondai i singhiozzi dentro al cappuccio della felpa che continuava a nutrirmi del suo odore. Poi lentamente mi lasciai andare e tra le lacrime mi addormentai senza neanche accorgermene.

Quando mi svegliai, erano già le sei del pomeriggio. Non avevo alcuna voglia di parlare, di mangiare, di vivere.

Afferrai il borsone da terra e lo lancia con forza sul letto. Aprii la cerniera e cominciai a tirare fuori i vestiti che Giselle aveva ripiegato con cura.

Tra le mie maglie trovai una busta ripiegata su se stessa.

La aprii lentamente, con il cuore in gola, e tirai fuori da essa l'istantanea che mi aveva scattato Daniel nei mercatini di Camden.

Sul retro c'era una scritta: "Ragazzo in polo bianca, 02/09/1989. Grazie di tutto. Idiota. Ci si vede."

Sentii un nodo alla gola, e non riuscii a trattenere più le lacrime che cominciarono a rigarmi il volto ininterrottamente. Strinsi la foto al petto e chiusi gli occhi mentre, accompagnato dai miei singhiozzi, il mio cuore si frantumava in mille pezzi.

Dopo aver fatto l'amore nella mia stanza, la notte prima, sul far dell'alba, io e Daniel restammo a parlare per il resto del tempo, prima che Giselle si fosse svegliata per venirci a dire di prepararci per andare in aeroporto.

«Credi nel destino?» Gli avevo chiesto mentre lo guardavo fumare, seduto sul davanzale della finestra.

«No. Tutte cazzate!» Sul suo viso era comparsa una smorfia. Subito dopo aveva soffiato fuori il fumo dalla bocca, verso la finestra aperta alle sue spalle.

«Io penso che il destino un giorno ci farà incontrare di nuovo.»

«Lo pensi davvero?»

«Si. Credo che a farci incontrare sia stata quella forza invisibile che come il vento, non puoi vedere, ma riesci a percepirne la forza quando fa muovere le foglie degli alberi. Vorrei che ci credessi anche tu. Che io e te non fossimo altro che foglie destinate a muoverci da un vento forte e potente che ci trascina. Un vento chiamato destino.»

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