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Non appena sentii la porta della camera di Giselle chiudersi, scesi dal letto in punta di piedi, e uscii da camera mia.

In pochi passi arrivai nella stanza di Daniel, e una volta entrato mi chiusi la porta alle spalle.

«L'hai fatto davvero?» Il suo volto era stupito. Il verde degli occhi intenso, mentre mi scrutava dall'alto seduto sul davanzale della finestra mezza aperta. Aveva addosso soltanto dei boxer, che ponevano un particolare accento sulla vita stretta e sulle cosce atletiche.

Non risposi. Mi limitai a distogliere lo sguardo e cercai di tenere a bada il formicolio che sentivo sulla pelle delle mie guance.

«Siediti pure.» Mi invitò ad accomodarmi sul letto mentre con la coda dell'occhio lo vidi passarsi una mano tra i capelli.

«Sei sicuro possa stare qui? L'ultima volta che sono entrato ci ho rimesso la mobilità del mio polso.» Tentai di fare del sarcasmo.

Un lieve sorriso gli sollevò l'angolo destro delle labbra carnose. «Stavolta è diverso, ti ho dato il permesso!» Scese dal davanzale, si voltò di spalle per un istante, gettando fuori dalla finestra il mozzicone di sigaretta, e mi mostrò la forma perfettamente rotonda dei suoi glutei.

Sentii nuovamente quello strano formicolio. Questa volta, anche dentro i pantaloni.

«Ti piacciono?» Mi chiese mentre io mi ero già voltato verso le fotografie sulla parete dove Daniel aveva messo in mostra alcuni dei suoi scatti. 

Restai immobile. Era riuscito ad avvertire il mio sguardo studiare le sue rotondità? Deglutii. La gola secchissima.

«Parlo delle foto. Ti piacciono?» Fece due passi verso di me. Notai le piante soffici dei suoi piedi ed il modo in cui le alzava dal pavimento leggermente, quasi strisciandole.

Balbettai un sì, poi mi soffermai a guardare nuovamente i suoi scatti. «Perché il soggetto è sempre sfocato?»

«Credo che le foto in questo modo siano ancora più simili a dei ricordi. I ricordi sono sempre un po' confusi, sbiaditi, non definiti. Quando catturo un momento mi piace imprigionarne l'essenza. Così che lo scatto stimoli il ricordo di quel momento e non l'immagine di esso.»

Quella risposta era diversa da qualsiasi altra avessi immaginato di ricevere da lui. «E quel tatuaggio invece?» Mi spinsi a fare un ulteriore domanda. «Quando l'hai fatto?»

«Questo?»Disse indicandolo con l'indice sinistro «L'ho fatto un anno fa. Mi sono sempre sentito molto solo e in un certo senso, diverso dagli altri. Decisi di tatuarmi un extraterrestre perché mi sentivo proprio così. Forse mi ci sento tuttora.» La sua voce era tranquilla ma il suo viso si rabbuiò, solo un po'. «Vuoi per caso farmi altre domande, Sherlock?»

«In realtà si!» Incalzai sorridendo «Sei stato tu l'anno scorso a bucare tutte le gomme dell'auto al Preside Jenkins?»

«Come fai a saperlo? Impiccione!» Il suo viso finalmente si distese, la sua bocca si piegò in un sorriso e con un gesto svelto afferrò il cuscino dal letto e me lo gettò in pieno viso. Scoppiammo a ridere.

All'improvviso sentimmo un rumore provenire dal corridoio. Restammo in assoluto silenzio per un po'. Poi, dopo alcuni istanti, riprendemmo a ridere silenziosamente.

Vederlo divertirsi era qualcosa di straordinario, forse perché non era molto solito farlo. Quando rideva i suoi occhi si socchiudevano, e nelle guance gli si formavano delle adorabili fossette. Gli angoli della bocca però non si estendevano più di tanto, quasi come se avesse timore di lasciarsi completamente andare.

Vai Mattia! È il tuo momento! Non fare il codardo o te ne pentirai per tutta la vita.

«Sei bellissimo quando ridi.» Dissi tutto d'un fiato. Il suo viso assunse un'espressione perplessa. «Volevo dire che sei bellissimo sempre. Anche quando non ridi. Cioè... Anche quando sei imbronciato. Non che tu sia sempre imbronciato ma...» Balbettavo come uno stupido. Senza sosta.

L'atto di coraggio era durato soltanto qualche secondo, ma ne andavo comunque fiero. Ero riuscito a dirgli per la prima volta quello che veramente pensavo.

«Mattia calmati. Ho capito.» Mi interruppe, mentre il suo viso si avvicinò pericolosamente al mio.

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