Vecchie ferite II

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Il cielo aveva assunto un colore così cupo che faticavo a credere che fosse ancora mattina, furono i continui spostamenti delle domestiche a confermarmelo.
«Fate attenzione con quelli», sentii lo scalpitare dei piatti in lontananza e immaginai che li stesse trasportando con estrema fatica, per questo si beccò il rimprovero ansioso della collega. «Ecco, datene un po' anche a me».
I loro passi si fecero sempre più vicini alla mia porta.
«Vi ringrazio, erano così tanti che non riuscivo neanche a vedere dove mettevo i piedi. Non capisco cosa se ne faccia di tutte queste posate...»
«Silenzio!», la riprese sussurrando, ma l'urgenza delle sue parole fu chiara e sufficiente a farla tacere. «È qui che soggiorna».
Corrucciai la fronte, sapevo con certezza che il signor Darroch dormiva al piano di sopra e non riuscivo a comprendere perché la mia presenza dovesse preoccuparla.
«Qui?», replicò imitando il tono basso della collega. «La ragazza è in quella stanza?»
«Sì, neanch'io potevo crederci quando mi hanno detto che l'avevano riaperta».
Feci per avvicinarmi alla porta, ignara di cosa volessero dire, provocando meno rumore possibile.
Il fatto che riuscissi a controllare così bene la mobilità della mia caviglia mi fece sollevare un angolo della bocca.
Sentivo che ormai mancava poco alla mia totale guarigione.
«C'è qualcosa di sbagliato in lei» mormorò la stessa donna che aveva rimproverato la collega. «Me l'ha confermato anche Morven, l'altro giorno. Farneticava che era venuta a chiederle qualcosa per medicare il signor Darroch e di aver rivisto lei nel suo viso. Era un fascio di nervi, poverina! Lo ripeteva senza sosta. Ve lo garantisco, quella ragazza è tanto maledetta quanto lo è lui».
Scossi la testa. Le parole della domestica risultarono così assurde che le trovai più simili a un delirio.
«La gente come loro è destinata a spegnersi e a spegnere gli altri».
Non avevo ancora avuto modo di metabolizzare quanto aveva detto sul mio conto, provocandomi chissà per quale motivo una morsa all'addome, quando arrivò una terza lavoratrice.
La sua rapida camminata riempì le mura del suo sforzo fisico e respiratorio.
«Maidy, dov'è che correte? Vi verrà un colpo».
«È arrivata una...» arrancò prendendo fiato. Doveva aver sbattuto su qualche mobile, perché un forte rumore le fece rimediare una ramanzina dalle altre due.
«Dite sul serio? Dorme qui, in quella camera?»
Cominciavo a perdere la pazienza, domandandomi cosa distinguesse la mia stanza da qualsiasi altra.
«Cos'è arrivato?», venne interrotta da una voce solenne e autoritaria che riconobbi all'istante.
«Signor Darroch» persino senza vederla ne percepivo la grande angoscia. «Non avrei mai pensato di potervi incontrare qui».
«Vi ho fatto una domanda» la sua fermezza riusciva sempre a stupirmi.
«Una lettera, signore. Viene dalla Red Hoose, è di Lauren».
Allora Axel le intimò di consegnargliela, il suono tenue della carta risuonò per il corridoio.
«Signore, se volete raggiungerli dall'altra parte», proruppe la seconda delle domestiche, «posso incaricare qualcuno di prepararvi una carrozza. In fondo è trascorso tanto tempo...»
«I miei affari non vi riguardano, Edme. Gradirei che ne rimaneste al di fuori».
I suoi passi echeggiarono, veloci, sul parquet di legno.
Storsi il naso, stentavo a credere che qualcuno potesse davvero sentire la sua mancanza.
Le tre donne lo imitarono poco dopo, lasciandomi incerta e infastidita.
Non mi conoscevano nemmeno, eppure per loro ero maledetta.
Destinata a logorare me stessa e a osservare gli altri patire a causa mia.
Ma ciò che più mi faceva aumentare la pressione delle unghie sulla carne, era la consapevolezza che forse era davvero così.
Io, che ero stata allontanata in quanto cattivo esempio per mia cugina e che ero una fastidiosa macchia nera sulla tela candida che era la reputazione dei signori Campbell.
Non rimanevo che io, con la mia presunta luce.
Ma il suo destino sembrava già stabilito, persino prima delle parole truci e risolute della domestica.
Sarebbe stata trasportata via dal richiamo lontano di una vita che non le apparteneva più.

Quando avevo deciso di riprendere la lettura di Ombra e luce davanti al fuoco del camino, non avevo ragionato sulla possibilità di imbattermi in una situazione simile a quella di tre giorni prima.
Ero stata accompagnata dalla signora Dunn che, entrando in camera mia, aveva sussultato e l'aveva nominata "la più fredda di tutta la dimora".
Aveva detto che non poteva lasciarmi lì, non quando fuori da Sentieri Nascosti era in corso l'ennesima bufera.
Così l'avevo assecondata, mettendomi a sedere sulla poltrona a sinistra- quella che non aveva rivendicato il signor Darroch- e avevo continuato a sfogliare le pagine del racconto.
Il Prigioniero dell'ombra trovava nel buio l'opportunità di osservare Eileen da lontano, e il suo cuore strideva alla visione, consapevole di non poter sfiorare quelle sensazioni che con la sua mente.
Lo spostamento deciso della poltrona davanti a me mi portò a sollevare gli occhi sulla figura che si era seduta al di sopra.
Axel aveva lo sguardo puntato su un libro dalla copertina scura, e non lasciò mai che la mia presenza lo portasse a distoglierlo su di me.
Neanche quando, contraendo la mandibola, lamentò: «Cominciate a trovarvi qui troppo spesso».
Il ritaglio della luce di una candela si ramificava sul suo viso in un contrasto solenne, capace di far scuotere in un'esplosione di brividi.
Esibiva una postura signorile, il suo torace si riempiva di tracotanza.
Sospirai, poiché sapevo già da prima che schiudesse le labbra che aveva intenzione di farvi fuoriuscire il suo potente veleno.
«La signora Dunn sa essere molto determinata» a quel punto, anch'io avevo le iridi incastrate negli spazi che allontanavano l'inchiostro del mio racconto.
Tuttavia, ormai avevo smesso di leggerlo davvero.
Confermò con un suono gutturale che mi impose di guardarlo di nuovo, poi passò la lingua sulle labbra con una lentezza snervante, prima di portarlo alla pagina successiva. Infine concluse: «Sì, lo so bene».
Restammo in silenzio, continuando con le rispettive opere, lanciandoci di tanto in tanto delle occhiate indispettite.
Non saremmo mai andati d'accordo, la mia era una convinzione irremovibile. Ma le parole di una delle domestiche che aveva sostato accanto alla mia porta mi fecero diramare una sensazione di freddo fin dentro ai nervi, alludendo a una somiglianza che mi fece affondare le mani sulla copertina di Ombra e luce.
Il corpo della signora Dunn si bloccò, notandoci insieme nella stessa stanza, dopo aver appena superato lo stipite della porta.
Mormorando si rimproverò di dover continuare a spazzare il pavimento, e io mi chiesi se quella donna avesse mai un attimo di tregua per distendere i muscoli.
Si fermò di nuovo, questa volta i suoi occhi si spalancarono più di prima quando trovarono il titolo del mio romanzo.
«È mai possibile...» non fu in grado di terminare il suo discorso, tuttavia, poiché optò da subito per voltarsi di scatto verso il padrone di casa.
«Sì, la vista non ti inganna. È il racconto proibito» assentì il signor Darroch, affilando gli angoli della bocca. «Ma mi auguro che lo stia continuando per il dovere morale di finirlo e non perché apprezzi davvero una storia tanto ridicola».
La sua schiettezza riuscì ancora a turbarmi, portandomi a stringere i denti. Non mi importava che la detestasse in quel modo viscerale, a innervosirmi era la sfrontatezza che mi indirizzava senza alcun motivo.
Eppure, una notte, l'avevo sentito declamarne i versi immerso nel suo buio freddo e tetro.
«Vi accanite in questo modo contro una storia ridicola?»
«Oh, così mi fate sembrare quasi indiscreto...» protestò con un tono ironico e tagliente come cocci di vetro. «Vedetemi come qualcuno che si batte contro una risonanza che non merita».
«A niente è concesso di piacere a tutti» mi affrettai a dire, senza neanche comprenderne la ragione. Sembrava quasi che fossi legata a quella storia, quando la mia reazione era data più dal bisogno di non dargliela vinta.
«Supportate la morale di un libro che incoraggia a sfidare la morte?», soffiò irrisorio, portando la governante a studiarmi con curiosità.
«Non si tratterebbe di amore, in fondo, se non valesse la pena di opporsi per preservarlo».
«Si tratta di un'idiozia, infatti, si sono rovinati a vicenda. Hanno agito senza coscienza».
«Un sentimento simile sfugge per natura al confronto con la coscienza, non trovate?»
Maggiore era il tempo che trascorrevo a battibeccare con lui, maggiore era la similarità tra le mie risposte e il suo atteggiamento.
«Date loro una giustificazione che non meritano riducendo tutto alla stregua di un sentimento. L'unico impulso che non hanno tenuto a freno era dettato dall'egoismo, a nessuno dei due importava davvero di cosa sarebbe accaduto all'altro o non avrebbero osato offendere il destino» pronunciò con una smorfia.
Non ero ancora arrivata al finale, eppure non mi importava, poiché quella discussione aveva ormai raggiunto una dimensione più personale. Le sue proteste si avvicinavano a una realtà che mi riguardava in modo troppo intimo.
Inclinai la testa quando realizzai che non c'erano astio, durezza o sarcasmo a temprare la sua voce. Al contrario, era serio e risoluto.
Sollevando un sopracciglio e capii di desiderare davvero di conoscere il suo punto di vista, perché io l'avevo visto, l'amore, l'avevo stretto a me e lui mi aveva logorato l'anima.
«Qualsiasi misera pulsione avesse provocato loro Einar avrebbero solo dovuto starsene alla larga» concluse facendo spallucce e affermando la sua stretta sul bracciolo della sua vecchia poltrona.
«Eppure il racconto la definisce un dono senza il quale la popolazione sarebbe stata costretta a un'esistenza vuota e infelice» soggiunsi sollevando un sopracciglio e lasciando scorrere il pollice sulle sue pagine ingiallite.
«Era proprio quel dono a obbligarli all'infelicità», fu il sibilo rauco e basso accompagnato da un sorriso sprezzante. «La definizione non si addice alla sua natura, la loro non era null'altro che una condanna».
Le sue iridi vennero attraversate da uno strano luccichio, parve sforzarsi di non rifinire la dichiarazione con la sua classica nota pungente.
Sentii una fermezza intransigente spingere sulla gola. Avrei voluto dirgli che si sbagliava, che l'affetto indissolubile dei miei genitori era ancora capace di riscaldare i miei muscoli intorpiditi.
Che un'unione così profonda era qualcosa per cui valeva la pena di battersi, persino a costo di perdere tutto. Mi era stato raccomandato sin dall'istante più remoto della mia giovinezza.
«Perciò avrebbero dovuto rinunciarvi? Così, senza neanche lottare?»
Ciò che sosteneva si allontanava così tanto dagli insegnamenti con cui ero cresciuta, che lo trovai assurdo.
«L'amore non è di chi combatte ma di chi è risposto a lasciar andare» proferì irremovibile. «E chi forza il proprio sugli altri, pur sapendo di obbligarli alla sofferenza, in realtà non ama che se stesso».
Il modo cauto con cui stavamo discutendo mi scosse la mente, inondandola di confusione.
La sua espressione era indecifrabile; fu la prima occasione in cui lo vidi come un normale essere umano.
Non una belva desiderosa di imprimere la propria superiorità sugli altri, né il peccato di un'ombra che gli attanagliava lo spirito.
Immaginai che se ne fosse accorto a sua volta, poiché anche il suo volto si incrinò insolitamente.
Non ebbi modo di studiarla a lungo, tuttavia, perché la sua durata fu breve e infima.
Si alzò di colpo, l'eco dello strisciare della poltrona sul pavimento fece trasalire la signora Dunn.
Ripose il suo volume sul tavolino di legno scuro che ci separava, poi fece per andarsene.
A quel punto, con un irrigidimento delle spalle larghe, assunse nuovamente le sembianze da bestia: «Ammesso che non sia soltanto un'altra delle vostre fiabe, naturalmente».

Sentieri NascostiWhere stories live. Discover now