Dimora di incubi III

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Sin da piccola, i miei genitori non avevano fatto altro che sottolineare quanto essere liberi rappresentasse un privilegio da cui era impossibile astenersi per raggiungere la felicità.
Perché un uomo poteva avere tutto ciò che chiunque al suo posto avrebbe potuto desiderare, ma se a impedirgli di essere felice vi era l'impossibilità di esprimerlo o di esternarlo allora non lo sarebbe mai stato davvero; era uno degli insegnamenti che più mi aveva segnata durante la crescita, poiché sapevo già che a loro era stata vietata.
E per me, in passato, la libertà aveva sempre assunto l'aspetto di due logori pattini di cuoio.
A ricordarmelo furono le condizioni atmosferiche di quella mattina (a esser più precisi, il giorno dopo la vicenda che aveva visto protagonista il signor Darroch); aveva nevicato per ore e io le avevo trascorse a osservare il paesaggio offerto dalla finestra del salotto che più si avvicinava al divano.
Piacevoli reminiscenze avevano accarezzato la mia mente, seppur con amarezza, riproponendomi le innumerevoli volte in cui mia madre era accorsa in camera mia con la connaturata dolcezza del suo sorriso e mi aveva annunciato che aveva nevicato per tutta la notte.
Al suo avviso io rispondevo sempre balzando giù dal letto e, come accadeva a lei, sulle mie labbra esplodeva un'unica consapevolezza: "Finalmente il lago è ghiacciato!".
Pattinare, così come suonare e leggere, apparteneva in principio proprio alle più grandi passioni di mamma.
Crescendo avevo ereditato ognuna di esse, ma nessuna riusciva a farmi sentire tanto serena; ogni cosa veniva arrestata dallo sfregamento della lama sul ghiaccio, dal caratteristico suono che quel lieto accanimento della superficie faceva risuonare nell'aria- diventando tutto ciò che riuscivo a percepire insieme al suono del mio solo respiro- e ancora dal vento che mi avvolgeva con decisione ogni lembo della pelle.
E sebbene mi mancasse terribilmente, adesso il solo pensiero di potermi muovere su una distesa ghiacciata e di raggiungere un qualsiasi lago mi stringeva lo stomaco in una morsa nauseante.
Forse non ci sarei mai più riuscita.
D'improvviso, un mormorio si ruppe tra i miei pensieri e mi fece subito comprendere che il signor Darroch si stava svegliando.
La governante era partita di mattina presto per comprare delle erbe che le permettessero di preparargli un infuso miracoloso (così lo aveva definito, cercando di convincere più sé stessa che me), perciò ero rimasta solo io, e poiché mi aveva pregata affinché lo fosse, avevo il compito di sorvegliarlo.
Lo scrutai muoversi sul vecchio divano sulle tonalità del barolo e poggiare una mano sulla fronte graffiata; quando tornò a una posizione statica sospirai e riportai la mia attenzione sul romanzo, appurando che stava ancora dormendo.
«Che cosa ci fate, voi, qui?»
Capii, dunque, di essermi sbagliata. Strabuzzai gli occhi e li riportai sulla sua figura.
«La signora Dunn mi ha chiesto di controllarvi».
«E perché dovreste controllarmi mentre dormo?»
«Perché l'ultima volta che avete dormito lo avete fatto sul vostro giardino in preda a urla e strepiti».
Non intendevo essere tanto schietta, ma il solito tono di superiorità che mi riservava sempre mi impedì di addolcire le parole.
Osservai la sua mandibola contrarsi e immaginai che stesse ricordando ciò che era successo.
«Di che diavolo state parlando?»
Ancora una volta, tuttavia, compresi di avere torto.
"Come può essersi dimenticato?", gli riservai un'occhiata confusa, ma il suo volto rimase inviolato; nessuna sorpresa ne mutò i lineamenti.
«Mi trovavo in giardino con Crabbit...»
«Il suo nome non è Crabbit e per voi non dev'essere che il mio cane».
«Mi trovavo in giardino con il vostro cane quando siete arrivato di colpo con il vostro cavallo» borbottai, marcandolo con evidente fastidio.
Mi indirizzò un'occhiata truce. Poi, sollevando un sopracciglio, mi esortò ad andare avanti e a fare meno spirito.
«Siete sceso e vi siete accasciato accanto al pozzo».
Una smorfia gli fece subito muovere le labbra ed esitai, domandandomi se fosse opportuno continuare.
«Tutto qui?», la sua voce ebbe un fremito che camuffò con dei colpi di tosse.
Le sue suppliche risuonarono vivide nella mia mente, e ancora mi colpì la mano sul polso che avevo ignorato e che continuava a conferirmi un malessere colpevole.
«Sì» mentii evasiva. «Vi ho riportato a casa e avete dormito da allora».
Il signor Darroch deglutì distogliendo lo sguardo, per un po' non disse più niente e non potei che imitarlo.
«Non occorre che fingiate ulteriormente di voler restare in questa stanza, adesso fatemi riposare».
Sospirai scocciata, desiderando mai come in precedenza di poter assecondare quanto mi aveva ordinato.
«Ho dato la mia parola alla signora Dunn. Le ho detto che sarei rimasta».
«Non mi importa, non ho la minima intenzione di lasciare che mi vigiliate come un lattante» soffiò con la durezza che lo caratterizzava.
«E io di infrangere una promessa, perciò vi chiedo di non insistere».
Avevo accettato a malincuore e con il timore di imbattermi in una situazione simile, ma un giuramento aveva per me un'enorme importanza e mai- in tutta la mia vita- avevo osato contravvenire a quelli che avevo dato.
Sbuffò scuotendo la testa e sedendosi con una rapidità tale da farmi credere che potesse svenire di nuovo da un momento all'altro, cercò di limitare un'espressione dolorante dovuta alla ferita sul braccio.
«Fate piano» mormorai desiderando di non aver preso alcun impegno.
Quando provò a mettersi in piedi lo fermai mettendogli una mano davanti.
«Mi ha anche fatto giurare di non farvi alzare per nessuna ragione».
«Oh, riconosco l'apprensione della governante» pronunciò a denti stretti. «Mi è difficile capire perché l'abbiate appoggiata».
Rispose il silenzio. Quello non lo sapevo neanch'io.
L'ipotesi che più ritenevo plausibile era che, sebbene stentassi ad ammetterlo, mi sentivo in debito per l'aiuto che avevo ricevuto da parte sua qualche sera prima.
Qualsiasi fosse la ragione che mi aveva chiesto, a ogni modo, si era annodata alla gola e non veniva mai articolata dalla mia bocca.
Approfittò della mia perplessità per sollevarsi dal divano e costringermi a imitarlo, abbandonando la grossa poltrona che vi avevo posizionato di fronte.
Adesso mi trovavo dinanzi a lui, sperando che bastasse a farlo desistere.
«Signorina Scott» mi riservò un sorriso ambiguo e si avvicinò con sicurezza finché non riuscì a farmi cedere. «Non conto di richiedervelo in modo altrettanto garbato se doveste insistere ulteriormente».
«Tornate a sedervi» avvertii una profonda sensazione di frustrazione concretizzarsi sulle mie guance, dunque rimproverai gli inutili tentativi con cui speravo di farmi ascoltare da lui.
«Signor Darroch» replicai corrucciando la fronte, notando con nervosismo che non aveva alcuna intenzione di darmi ascolto. «Se vi ostinerete a forzare il vostro corpo malgrado lo stato in cui è ridotto sarò obbligata a seguirvi. Lo farò anche se mi urlerete contro e in ogni angolo di questa dimora, persino a discapito dell'ineducazione che dimostrerei nei confronti del suo stesso padrone. Lo farò anche se minaccerete di cacciarmi. Ho dato la mia parola e al momento non sembrate ragionare lucidamente, dunque lo ripeto: tornate a sedervi, per favore».
Mi indirizzò un'occhiata soffocante, vigorosa nel suo silenzio e impossibile da seguire fino alla propria origine, eppure non esplose mai nella reazione smodata a cui avevo già cominciato a prepararmi.
Infatti, cogliendomi di sorpresa, dopo aver brontolato una protesta pregna di stizza fece quanto gli avevo domandato.

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