Epilogo

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Una notte di dicembre di sessant'anni dopo, Rose si apprestava a uscire da una libreria del centro di New York. Al suo fianco, sua nipote Adelaide le porgeva il braccio per evitare che inciampasse sui gradini.

«Non c'è bisogno, cara», sussurrò l'anziana pizzicandole una guancia arrossata con le dita fredde. «So ancora cavarmela da sola.»

«Non ne sarei così sicura, nonna. Devo forse ricordarti cos'è successo l'ultima volta che hai detto una cosa del genere?»

Rose si lasciò sfuggire una risata rauca, e la liquidò con un gesto della mano.

«Una caviglia fratturata non è poi la fine del mondo.»

Avrebbe voluto rifiutare ancora l'aiuto della più giovane dei suoi nipoti, ma era troppo stanca per ribattere di nuovo. Lasciò che Adelaide l'accompagnasse al suo appartamento a Park Avenue e la congedò con tre baci sulle guance, un'abitudine che si portavano dietro fin da quando Adelaide era solo una bambina.

Era passato molto tempo ormai dall'ultima volta che Rose aveva provato vero piacere nel rientrare a casa. I giorni sembravano ormai uguali, un susseguirsi infinito di mattine nevose, piovose, afose, e nottate insonni. Da quando Derek era morto, cinque anni prima, nulla aveva più lo stesso colore.

Avevano avuto una bella vita, loro due. Si erano conosciuti al primo anno di college, quando Rose arrotondava lavorando come cameriera in un ristorantino a Hell's Kitchen. La prima volta che James la vide, pensò che una bellezza simile non avrebbe dovuto essere permessa; la prima volta che Rose lo vide, pensò che avrebbe dovuto cambiare taglio di capelli.

Lui si era innamorato di corsa, senza fiato, mentre per lei era stata una lenta traversata. Non glielo avrebbe mai confidato, ma il suo cuore era ancora spaccato a metà. Ad essere del tutto onesti, non si era mai ricucito del tutto.

Alla fine, tuttavia, James era diventato il suo migliore amico. E le aveva anche dato tre figli, che Rose amava con un'intensità che ancora la consumava dopo tanti anni. La più grande, Marlene, aveva ereditato il carattere sognatore del padre, ed era finita a lavorare per un'associazione di beneficienza che aiutava gli orfani di guerra. Poi c'era la figlia più giovane, Eliza, che fin dalla nascita aveva sfoggiato una chioma rosso fuoco proprio come quella della madre. E d'infuocato aveva anche l'animo, sempre sull'attenti, mai ferma nel suo viavai di idee e di giochi d'immaginazione.

Infine, l'unico maschio. Il figlio di mezzo.

Adam.

Proprio a lui, solo due anni prima, aveva raccontato la sua storia. Ed era stato Adam a spronarla a buttare su carta quelle parole, a condividere con il mondo i ricordi dell'estate a Witchwood Manor. Era stato un processo lungo, carico di emozioni che Rose non pensava neanche di poter più provare dopo tutti quegli anni.

In sessant'anni non aveva mai raccontato a nessuno ciò che era accaduto in quel paesino di campagna del New Jersey. Aveva portato con sé le vite della famiglia Hall e le aveva custodite gelosamente in un cassetto recondito del suo cuore e della sua mente.

Poi, un giorno, aveva capito che era arrivato il momento di raccontare quella storia. E non lo aveva capito in un giorno qualsiasi: lo aveva deciso la sera in cui le avevano detto che i dolori che l'accompagnavano ormai da settimane erano dovuti a un cancro in fase terminale.

Rose accese con un po' di fatica il camino, poi si accomodò sulla poltrona in pelle al centro del salotto. Guardava con nostalgia i fiocchi di neve che scivolavano fuori dalla vetrata, ricoprendo i tetti di New York come una soffice coperta di lana.

Ascoltando lo scoppiettio della legna nel fuoco, ripensò alla serata appena passata. Le presentazioni del suo libro stavano andando a gonfie vele: l'intero Paese sembrava completamente rapito da quella strana storia d'invenzione. I racconti di fantasmi avevano ancora una certa presa sul pubblico.

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