29. Un'armata Brancaleone delle sette note

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Il sabato pomeriggio eravamo tutti carichi a pallettoni. Solo l'assenza di Iacopo gettava un'ombra sul nostro entusiasmo, ma per fortuna il mio migliore amico sembrava essere tornato sui suoi passi, riguardo all'idea di lasciare la band: al novantacinque per cento, aveva dichiarato, sarebbe stato presente alle prove del sabato successivo, e al diavolo le incazzature dei suoi genitori.

Aureliano era seduto su uno sgabello e provava a suonare l'assolo di basso di Guyana (uno dei suoi pezzi preferiti dei Manowar), fermandosi ogni volta che arrivava alla parte più difficile e poi ricominciando, con grande testardaggine. Io stavo attaccando il distorsore e regolando il volume, Elio alternava diversi suoni orchestrali delle tastiere, cercando quello che gli piaceva di più. Davide e Marco erano venuti a farci da pubblico e sedevano con la schiena appoggiata a uno dei muri insonorizzati, discutendo di giochi di ruolo e leggendo qualcosa sul telefono di Marco.

Aureliano suonò l'ennesima nota stonata, rinunciò all'assolo e gettò uno sguardo all'orologio appeso al muro. "Ma Andrea quando arriva?" domandò. "Cazzarola, sempre tardi deve fare..."

"Zi', abbi pazienza, lo sai che viene dalla Giustiniana," replicai, prendendo subito le difese della mia amica d'infanzia. "Per quanto può partire presto, c'è sempre un bus o un treno in ritardo. Ma Nadia? Oggi non viene?"

Aureliano fece la faccia di chi è stato appena toccato su un punto dolente. "Lascia perde," borbottò, "avemo tipo litigato..."

"Mi spiace, zi'."

"Queste pischelle non si sa che vogliono dalla vita, Leo," lamentò Aureliano, suonando un terzinato sbilenco sulla prima corda del basso. "Se vuoi un consiglio, lascia perdere Viola e vivi tranquillo. Meglio restare single per sempre, mi sa."

Stavo per replicare, quando la porta insonorizzata della saletta si aprì di botto e Andrea entrò trafelata, scusandosi per il ritardo. Era in maniche corte e senza giacca — neanche fosse già maggio — e aveva stretto i capelli in una voluminosa crocchia, dalla quale stavano iniziando a sfuggire le prime ciocche.

Andrea lasciò cadere la borsa che portava a tracolla, agitò la mano a mo' di saluto, facendo girare lo sguardo su tutti i presenti, poi si spostò di lato per far entrare un'altra persona nello stretto spazio della sala prove. Si trattava di una ragazza in stivali e giacca di pelle, con la pelle olivastra e i capelli scuri legati in una coda. Mi ci volle un secondo per riconoscerla.

Non è possibile, pensai, bloccandomi dov'ero, con il braccio ancora sollevato per rispondere al saluto di Andrea. La persona che la mia amica voleva presentarci, la potenziale nuova cantante del nostro gruppo, era Lara.

Desiderai avere un buco nel quale potermi nascondere. Lara sorrise, posò la custodia della sua chitarra accanto alla borsa di Andrea e si chiuse la porta alle spalle; poi, i suoi occhi neri incontrarono, inevitabilmente, i miei. Mi chiesi, in quella lunghissima frazione di secondo, se fosse possibile perdere i sensi per l'imbarazzo.

Il sorriso di Lara si allargò. "Ciao, Leo!" esclamò, e mi venne incontro per scambiare con me un rituale, assolutamente disinvolto (da parte sua) paio di bacetti guancia a guancia. "Quanto tempo! Come stai?"

Il mio imbarazzo venne sostituito, almeno in parte, dalla speranza. Ha detto 'quanto tempo', pensai. Non mi ha riconosciuto, quella sera al Setup! Per forza, anche se non avevo la maschera e lei era lì vicino, c'era troppa gente e non abbastanza luce. Ho evitato la più grande figura di merda della storia.

Ma la mia fortuna non mi avrebbe aiutato, se non fossi riuscito a mostrarmi a mio agio. Cercai di improvvisare l'espressione di chi non vede qualcuno da un sacco di tempo (da quel giorno sul tram, un paio d'anni prima, per la precisione: sperai che Lara avesse relegato quell'episodio al proprio personale dimenticatoio) e contraccambiai il saluto con entusiasmo.

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