9. Chi è la fortunata?

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Il lunedì mattina ero di umore infernale. La birra e i cicchetti del sabato sera si erano trasformati in un feroce doposbronza che mi aveva tenuto a casa, in stato semi-comatoso, per tutta la domenica. Alle ore otto e dieci di mattina, assonnato e ansioso per un imminente compito in classe, ero giunto a scuola appena in tempo per vedere Viola smontare dalla moto del suo ragazzo: il bellimbusto doveva aver deciso che venirla a prendere all'uscita non era più sufficiente, se voleva riuscire a prosciugarmi l'anima prima della fine dell'anno scolastico. Il compito in classe — matematica — era andato una merda.

Tutte le mie speranze di risollevare la giornata erano riposte nell'ora di educazione fisica; uscendo in cortile, mentre già cominciavo a sentirmi più leggero, ebbi la sorpresa di vedere Viola e un'altra mezza dozzina di ragazze del primo F sedute contro il muro della scuola, a chiacchierare e a godersi il poco sole che filtrava a tratti dalle nubi. Probabile che la classe si trovasse in libertà a causa di un'ora di buco. Desiderai che cominciasse a piovere a dirotto, più che altro per non ammettere che in realtà avrei voluto restare tutta l'ora seduto dall'altra parte del cortile a guardare Viola.

Io e i miei compagni di classe iniziammo a fare i giri di campo. Cercai di concentrarmi sul movimento delle gambe e sul respiro e di non sbirciare verso Viola. 

Resistetti quasi un paio di minuti, bisogna darmene atto. 

La ragazza dei miei sogni sedeva con le lunghe gambe piegate ad angolo, le ginocchia che si toccavano, e una cuffia dell'iPod nell'orecchio destro, mentre con il sinistro ascoltava quello che dicevano le compagne sedute accanto a lei, sorridendo spesso ma intervenendo di rado. Un piede calzato in una Converse rossa batteva il tempo di una canzone che in quel momento avrei dato qualsiasi cosa per conoscere.

Evitai per un centimetro di sbattere contro il palo che sorreggeva la rete da pallavolo e cercai di riscuotermi. Inutile. Arrivò un breve scroscio di risa dal gruppetto di ragazze; mi voltai, cercando di fare il vago. I denti bianchissimi di Viola lampeggiavano. Strizzò gli occhi quando il sole fece di nuovo capolino e le brillò sul viso. Mi faceva male la pancia da quanto la desideravo.

Correndo con la faccia girata, non mi accorsi che ero andato troppo dietro a Santarelli e incespicai nei suoi calcagni da elefante.

"Ahò, e sta' attento," ringhiò lui, voltando a metà la testa su quel suo collo spesso come una trave.

"Scusa," borbottai, timoroso che potesse accorgersi su chi era concentrata la mia attenzione.

Le cose riuscirono a peggiorare quando la prof dichiarò che i ragazzi sarebbero rimasti sul campo a giocare a basket, mentre le ragazze potevano andare in palestra e dedicarsi alla pallavolo. Considerai di fingere un infortunio, oppure chiedere il permesso di andare al bagno e restarci per il resto della lezione; poi guardai di nuovo in direzione del gruppetto di primo F: Viola stava scribacchiando qualcosa sul diario. Si fermò un momento e appoggiò l'estremità della penna fra le labbra coralline, increspate in un piccolo sorriso. Decisi di restare.

Quello che seguì fu un disastro: già di solito non ero un asso nel tiro a canestro, ma giocare cercando di non staccare gli occhi dalla ragazza che amavo mi fece piombare con un tonfo oltre la soglia del ridicolo. Viola tirava fuori le mani bianche dalle tasche dal cappotto e soffiava sulle dita per scacciare il freddo—io lisciavo la palla. Viola stendeva le gambe per sgranchirsi—tiravo la palla verso il canestro ma lo mancavo di diversi metri. Viola giocherellava con una ciocca di capelli biondi—sbattevo addosso ad un mio compagno di squadra. I Tre Stronzi, vedendo che l'occasione era propizia, cominciarono a sfottere.

"A Felici, sei 'na zappa!"

"Ahò, ma che c'hai l'occhi sulle chiappe?"

"Felici, stamo a gioca' a basket, no a palla avvelenata!"

Cominciai ad irritarmi. Non bastava essere costretto a guardare da lontano la ragazza più bella del mondo, mentre se ne stava seduta a irradiare luce intorno a sé con ogni minimo gesto: dovevo pure rimanere incastrato a giocare una partita a un gioco che detestavo, con delle persone che mi sfottevano. Il mio stomaco iniziò a chiudersi e a torcersi, mentre la frustrazione prendeva il sopravvento sull'estasi contemplativa.

"A Felici, ma che sei paralitico?"

Poi accadde qualcosa che fece fermare il tempo. Viola si illuminò in viso, alzò una mano per far cenno a una delle sue compagne di aspettare e si mise anche l'auricolare sinistro. Poi iniziò a far oscillare la testa, con i piedi che battevano il ritmo e le mani che suonavano una batteria immaginaria. Il suo lettore doveva averle appena regalato una delle sue canzoni preferite. Dimenticai di avere il pallone fra le mani e lasciai che mi sfuggisse e rotolasse via. Viola teneva gli occhi socchiusi ed era tutta persa nella sua musica, almeno quanto io ero perso nel contemplare la sua bellezza. Stava muovendo le labbra, cantando a bassa voce: forse, guardando con più attenzione, sarei riuscito a cogliere una parola e capire qual era la canzone che l'aveva incantata...

"FELICIIII!" strepitò Iannello, tra le risate generali; tornai alla realtà con un sobbalzo. "Basta, te prego, vatte a sede' da qualche parte! Nun se po' gioca' così, meglio esse uno de meno che avette in squadra!"

Non avevo intenzione di farmi pregare e girai i tacchi per uscire dal campo. "Fottetevi tutti," mugugnai a mezza voce. Avevo sopportato anche troppo quella situazione.

"Aaah, ma ho capito," esclamò Santarelli, spostando lo sguardo da me al gruppetto di ragazze, mentre sulla faccia gli si allargava un sogghigno. "Te stavi a spizza' le pischelle de primo F!"

Mi bloccai, con il cuore che mi saltava in gola. Santarelli aveva parlato a voce alta: e se una delle ragazze l'avesse sentito? E se qualcuna capiva? E se Viola capiva?

"No, io non... non... che cosa... m-ma..." balbettai, le parole che mi strozzavano, mi bruciavano in gola come un boccone di cibo piccante. "Ma che cazzo dici!" esplosi, furioso per la paura di essere scoperto (e anche per il fatto che Santarelli era obiettivamente una testa di cazzo, non dico di no). Nessuno doveva sapere, e meno che mai Santarelli e i suoi amici splendidi, che erano indegni anche solo di pronunciare il nome di Viola; il pensiero che un segreto custodito con tanta cura potesse essere trascinato alla luce del sole, dileggiato e trasformato in un bersaglio per qualche battuta da quattro soldi, mi dava la nausea. Avevo il viso in fiamme e la gabbia toracica che risuonava come un tamburo. Forse poteva sentirla anche Santarelli; forse perfino Viola.

"Dico che è un'ora che pari rincojonito, perché stai con la testa girata a spizzarti qualche pischella laggiù," chiarificò Santarelli. "Daje Felici, dicce: chi è la fortunata?"

Il tono di scherno con cui pronunciò l'ultima parola mi fece ribollire tutti gli umori del corpo. Tre anni di scuole medie passate a contatto con La Torre, Garella e soci mi avevano quasi immunizzato agli sfottò dei Tre Stronzi — che al confronto con quella vecchia cricca di bulli non erano altro che miseri dilettanti — ma adesso Santarelli l'aveva fatta fuori dal vaso. Anche se il coglione non ne aveva idea, stava insultando Viola, oltre che me.

Il pallone era ancora per terra, a un passo da me. Lo raccolsi. Ogni traccia di razionalità era sparita dalla mia mente.

"Vaffanculo Santarelli, non mi devi rompere il cazzo, hai capito?" ruggii, e gli tirai la palla da basket in faccia con tutta la forza che avevo. Lui la parò d'istinto col braccio e mi guardò per un attimo con espressione totalmente incredula. Poi coprì in due falcate la distanza che ci separava e mi rifilò una manata in faccia che era quasi un pugno. Un dolore boia mi si allargò intorno all'occhio sinistro dopo mezzo secondo e tutta l'adrenalina sembrò abbandonare di botto il mio organismo. Caddi come corpo morto cade.

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