8. Promessa

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8. Promessa

Non so per quante oree dormii senza sognare, fatto sta che quando mi ritrovai nella stanza di Jason sentii una fitta di inquietudine al pensiero che sarebbe potuto essere tutto finito senza nessun apparente motivo, che quello strano legame che ci univa potesse essere stato reciso e che i miei sogni potessero tornare a essere quello che erano prima: inutili e insensati.

Le pareti bianche del suo alloggio, quindi, mi parvero stranamente accoglienti e rassicuranti.

Un rumore alle mie spalle mi fece voltare di scatto. Ciò che vidi fu una mano contro una specie di vetro, era la cabina del sonno, evanescente e apparentemente inconsistente, ma la mano che vedevo vi era premuta sopra, in un gesto inconsapevole di dolore.

Mi avvicinai e ovviamente all'interno c'era Jason che, svegliandosi, mi aveva trascinata con sé. Teneva il capo chino, riuscivo solo a vedere che stringeva i denti e che i muscoli del suo braccio erano contratti, mettendo in evidenza i tendini, sembrava che dovessero spezzarsi da un momento all'altro. Era ovvio che soffriva, quante volte mi era ormai successo? Senza pensarci feci un passo avanti, senza chiedermi se la sua cabina mi avrebbe accolto facilmente dentro di sé. Allungai una mano e con un semplice passo fui dentro.

Lo spazio era esiguo, premevo con la schiena contro il vetro, Jason occupava in piedi quasi tutta la cabina. Ciò che provai fu una strana sensazione: era come fluttuare, senza peso, ma tenendo i piedi ben piantati a terra. Il silenzio era profondo, ma non fastidioso: era rilassante, riposante.

Non sapevo bene cosa fare, l'unica cosa importante era che lui smettesse di soffrire. Allungai con esitazione una mano e la poggiai sul suo petto, sperando che il contatto con la mia pelle potesse dargli sollievo, così come lui aveva fatto con me. Aprì istantaneamente gli occhi, sorpreso e turbato. Posai l'altra mano, il più lievemente possibile sul suo volto: la sua pelle era liscia e calda sotto le mie dita.

Sentivo il suo cuore: pulsava forte e regolare. Non mi aspettavo la sua reazione: tolse la mano dal vetro e la posò sui miei fianchi con urgenza, attirandomi a sé. Le dita premevano sula pelle della mia schiena, senza indecisione, con forza.

Passarono alcuni minuti e gli spasmi muscolari piano piano cessarono. Le sue braccia attorno a me non erano più tese e rigide, ma accoglienti. Mi concessi di chiudere gli occhi un momento per fare il pieno della sua vicinanza, mi concessi di amarlo un momento. Quando era vulnerabile era più semplice lasciarsi andare: avevo una giustificazione valida per abbassare la guardia.

"Grazie".

Al suono della sua voce aprii gli occhi e trovai il suo volto a pochi centimetri da me, così bello che avrei potuto guardarlo per sempre, senza stancarmi mai.

Cercai di fare un passo indietro, ma lui mi trattenne tra le sue braccia per un altro istante, poi parve ricordarsi qualcosa e lasciò ricadere le sue mani lungo i fianchi. D'altronde era quello che volevo, no?

Probabilmente ero rimasta lì fissa impalata a guardarlo, perché un lieve sorriso comparve sul viso di Jason; poggiò una mano a palmo aperto sulla mia spalla e spinse leggermente, facendomi uscire di nuovo nel biancore della sua stanza asettica, dove mi seguì immediatamente.

"Senti, perché non dormi ancora un po'? Mentre io sono qui...".

"Perché?", mi interruppe sorpreso.

"Beh...così anche tu potrai farti un sonno decente, senza andare da nessuna parte". Sollevai le spalle come a sottolineare la semplicità della cosa.

Scoppiò a ridere mentre si sedeva alla sua consolle. "Pensi che preferirei sognare qualcosa che non fossi tu?".

La sua risata non mi trasse in inganno, nei suoi occhi non c'era traccia di ironia; in quell'istante mi stavano incenerendo. Non potei rispondere, potei solo andare a fuoco in silenzio, detestandomi.

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