9. Troll per cena

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Il castello si erge davanti a noi in tutta la sua tetra magnificenza. È altissimo, più di qualunque cosa io abbia mai visto, e le sue guglie sono tanto appuntite che temo possano bucare il cielo bianco lattiginoso che ci sovrasta. Sicuramente è stato fatto con la stessa pietra della collina su cui sorge e da cui sembra emergere direttamente, come se, più che costruito, fosse scavato direttamente nelle viscere della terra.

Anche il portone è enorme e, così come il cancello dorato, reca incise le lettere RTT, che comincio a credere siano le iniziali dell'uomo che mi ha salvata e di cui in realtà ancora non conosco il nome. Lo guardo un attimo, chiedendomi come potrebbe chiamarsi una persona così. R... Rubio, magari?

Glielo sto per chiedere quando lui spalanca uno dei due battenti e fa per entrare, salvo poi fermarsi e farsi da parte per cedermi il passo, in un gesto di inaspettata galanteria. Gordost si fionda dentro prima di me, con la coda che si muove frenetica a destra e a sinistra, tanto contento di essere tornato a casa che potrei quasi giurare di vederlo sorridere.

Seguo il lupo all'interno e, dopo appena un paio di passi, mi fermo meravigliata ad ammirare la maestosa architettura dell'atrio. È tutto fatto di pietra grigia, ma è tanto finemente scolpito e decorato da farmi venire in mente i pizzi di tela di ragno fatti da mia madre. Su tutti i muri, all'altezza del volto, corre un bassorilievo così dettagliato da sembrare quasi vero. Mi avvicino per guardarlo meglio; nella scena che mi trovo davanti agli occhi un uomo con sguardo cupo è ritratto in un angolo, mentre alle sue spalle tutto il popolo gioisce per l'incoronazione di un nuovo re.

— Avrai tutto il tempo per guardarlo più tardi, adesso muoviti, ché ti faccio vedere la tua stanza — mi interrompe lui brusco e un po' infastidito, come se avesse fretta di andarsene. Senza neanche darmi il tempo di ribattere si avvia su per l'ampia scalinata che domina l'atrio altrimenti vuoto e io sono costretta a corrergli dietro per non essere seminata. La parte centrale dei gradini è rivestita da un liscio tappeto color panna e mi stupisce il fatto che rimanga perfettamente pulito nonostante il mezzelfo ci stia passando sopra con un paio di pesanti stivali tutti impolverati.

Giungiamo a un lungo corridoio che corre sia a destra che sinistra, anch'esso in pietra e intervallato da ampie finestre coperte da tende bianche dall'aspetto molto morbido. Vorrei verificare, ma il mezzelfo spalanca una porta in legno scuro poco più avanti e si ferma sulla soglia ad aspettarmi impaziente.

— Puoi dormire qui finché resti all'inferno — mi informa non appena varco l'uscio, facendo il mio ingresso in una camera dai raffinati mobili intarsiati e arredata con tende e coperte color panna. Lui entra dietro di me e intanto continua a parlare con tono monocorde.

— Di là c'è il bagno, ti consiglio di farti una doccia per toglierti di dosso lo sporco e poi dovresti disinfettare e fasciare le ferite. Io ti aspetto in cucina.

Poi esce dalla stanza, prima che io possa dire qualunque cosa, chiudendosi la porta alle spalle con forza.

Rimango in piedi in mezzo alla camera per un tempo che non riesco a definire, troppo stranita per fare qualunque cosa; poi mi avvio con passo strascicato verso la stanza che il mezzelfo ha chiamato "bagno", parola che in realtà a me fa venire in mente solo il fiume che attraversa il mio villaggio e che non riesco ad associare a nulla che possa stare in un castello di pietra. Non appena apro la porta si presenta davanti ai miei occhi una delle cose più strane che io abbia mai visto: una serie di oggetti bronzei che paiono tinozze di varie dimensioni sono agganciati su praticamente tutti i muri, corredati da altrettanti panni bianchi.

Mi avvicino a quello più grande, più largo che alto, abbastanza capiente da contenermi tutta da sdraiata, e lo analizzo, cercando di capire a cosa possa servire. Sembra la versione gigante della ciotola che mia mamma tiene sulla toeletta in camera sua e in cui si sciacqua la faccia quando si sveglia la mattina. Una specie di proboscide anch'essa in bronzo, affiancata da due rotelle dentate, esce direttamente dalla pietra del muro poco sopra il bordo della tinozza. Timorosa, allungo la mano verso di essa, sentendomi nel complesso abbastanza ridicola. Voglio dire, è un oggetto metallico, cosa c'è da aver paura? Ma nonostante questa consapevolezza non riesco a scacciare quella vaga sensazione di straniamento e inquietudine. Penso che sia colpa dei pregiudizi negativi che sto cominciando ad avere verso qualunque cosa stia qui all'inferno.

Fonte limpidaWhere stories live. Discover now