Prologo

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Dodici primavere sono passate da quando ho aperto per la prima volta gli occhi sul mondo. Esattamente dodici, non un giorno di più, non uno di meno. Oggi dovrebbe essere una giornata di festa.

E invece non lo è.

Perché esattamente dodici primavere fa è venuta alla luce anche Iris, la mia gemella perfetta.

Lei sì che oggi ha festeggiato, sorridendo raggiante davanti alla torta di giunchi preparata dalla mamma e dilettando i nostri ospiti con dei piccoli trucchetti di magia. Le è bastato far sfarfallare le dita nell'aria e subito mille topolini hanno cominciato a ballare, per poi salirle sulle spalle e sussurrarle segreti alle orecchie. Se ci ripenso, sento ancora le mani prudere per il nervoso.

Da quando la Comunità della Polla ha scoperto che sa parlare con tutti gli animali, Iris è diventata una specie di celebrità. La gente parla di lei continuamente. "Oh, la figlia di Medulla è davvero straordinaria" dice. "Avete visto il suo fantastico potere?"

E io? L'altra figlia di Medulla, quella di cui nessuno si ricorda mai? Quella insulsa, inutile ninfa senza poteri. Quando mai si è vista una cosa del genere?

Mai, e io lo so bene perché ho cercato e ricercato, perdendo talvolta interi pomeriggi in biblioteca o ad ascoltare le storie narrate dalle anziane del villaggio. Se avessi trovato anche solo un'altra ninfa come me, nella storia della Comunità, forse mi sarei sentita un po' meno sola, un po' meno diversa, ma mai era accaduta una cosa del genere.

Iris una celebrità, io un oltraggio. A mio tempo sono stata famosa anch'io, ma poi la gente si è abituata alla mia stranezza e mi ha dimenticata.

Dalla mia camera sento gli ospiti ridere nella stanza a fianco: pare che tutti si stiano divertendo un sacco a quella festa che dovrebbe essere anche mia, ma dalla quale mi sento esclusa. Ormai sarà passata più di un'ora da quando l'ho lasciata, ma tanto sono sicura che nessuno avrà sentito la mia mancanza.

Sono sdraiata sotto le coperte sottili, al buio, da quando mia madre è venuta a vedere come stavo. È entrata in punta di piedi, sussurrando il mio nome, ma io non avevo voglia di vedere nessuno e così ho finto di dormire. Lei si è chinata sul mio letto, con i suoi lunghi capelli ricci che mi solleticavano le guance, ma, dopo aver visto che avevo gli occhi chiusi, mi ha baciato dolcemente sulla fronte e ha lasciato la camera.

È da allora che tento di dormire, ma le voci nella stanza a fianco me lo impediscono e sono stanca di continuare a rigirarmi nel letto, avvolgendomi nella coperta come un bruco in un bozzolo, così scalcio via il lenzuolo e mi metto a sedere. Indosso ancora l'abito di tela di ragno che la mamma ha tessuto per me, così leggero e impalpabile che mi pare quasi di non averlo. Rimango a lungo a fissarne i riflessi cangianti facendo dondolare i piedi oltre il bordo del letto, poi piano piano sento il brusio delle voci scemare e diventare infine silenzio.

Due colpetti risuonano alla mia porta.

— Lym, dormi? — La voce di Iris è appena un sussurro.

Non rispondo e, senza sollevare lo sguardo dal vestito, aspetto che lei si allontani.

Quando finalmente mi volto verso la porta, noto in terra un quadratino bianco. Incuriosita mi alzo e lo raccolgo, rigirandolo fra le mani: si tratta di un biglietto di compleanno decorato con dei fiori secchi e pressati, e al suo fianco, sempre sul pavimento, si trova un braccialetto di corda intrecciato.

"Auguri, Lym! Volevo dartelo alla festa, ma sei scomparsa all'improvviso. Ti voglio bene, Iris."

È in momenti come questo che il mio cervello si rifiuta di ragionare lucidamente, quando mia sorella si comporta come se non si accorgesse nemmeno che tutta la sua luce non fa che gettarmi in un'ombra sempre più buia. Come se non vedesse l'angolo in cui mi ha spinta primavera dopo primavera.

"Ti voglio bene."

Ho bisogno di un po' d'aria fresca, di correre nei boschi finché non saprò più dove mi trovo e potrò sperare di non riuscire a ritrovare la strada di casa.

Esco dalla finestra come ho già fatto tante volte e, non appena i miei piedi nudi affondano nell'erba fresca, comincio a correre nella notte. Vado dove mi porta il vento, con i capelli che svolazzano leggeri alle mie spalle; prendo sentieri che non ho mai esplorato e seguo impronte di animali che non conosco.

Mi sento libera. Libera di fare ciò che voglio e di essere chi sono: non Lympha, la ninfa senza poteri, ma un usignolo che canta al mattino o una delle sirene che si racconta popolino i mari lontani. Corro finché non mi bruciano i muscoli delle gambe e il cuore minaccia di scoppiarmi nel petto.

Poi inciampo e cado in terra. Le mie ginocchia colpiscono qualcosa di duro che brucia come fosse fuoco, mentre le mie mani affondano nel terreno polveroso e asciutto. Mi rialzo in fretta, con una smorfia di dolore.

Mi guardo in giro, perplessa e intimorita, e, nella tenue luce che precede l'alba, mi accorgo di essere finita in un cerchio di carboni ancora caldi, intorno al quale sono incise alcune scritte in caratteri incomprensibili. Un animale che non riesco a distinguere si avvicina, ma, non appena sfiora le parole, fugge indietro spaventato.

Un brivido mi attraversa la schiena come se un soffio freddo mi avesse sfiorato il collo, smuovendo un'aria altrimenti immobile. Mi stringo le braccia al petto per trovare un po' di calore e conforto.

Se fossi Iris potrei chiedere agli animali dove mi trovo, ma ovviamente non posso. La solita rabbia che mi riempie il cuore cerca di riconquistare lo spazio rubatole dall'inquietudine.

Vorrei avere un potere eccezionale, in grado di eclissare la straordinaria capacità che la natura ha donato alla mia gemella. Vorrei essere io quella che tutti apprezzano, eccome se lo vorrei: è la cosa che desidero di più al mondo.

Tutto a un tratto dai carboni bollenti si alza una nebbia rossastra che comincia a danzarmi attorno, avvolgendomi in un abbraccio indesiderato. È calda e placa i brividi che ancora mi attraversano il corpo, facendo però accelerare i battiti del mio cuore. Devo scappare, ogni muscolo me lo ordina, ma c'è qualcosa in questo vapore che mi ammalia e mi seduce come il più dolce degli incantesimi.

Una voce che sembra provenire da ogni luogo e da nessuna parte comincia a sussurrare suadente, facendomi sussultare.

Io posso esaudire il tuo desiderio, Lympha, basta che tu lo chieda.

Le parole mi colano come miele nelle orecchie, dolci e vischiose, si espandono dentro di me e mi riempiono il petto senza lasciare spazio a nient'altro, tanto che per un attimo mi sembra di soffocare.

— Lo voglio più di ogni altra cosa — rispondo in un sussurro strozzato. E sento di non aver mai desiderato nient'altro in modo così intenso e sincero.

— E così sia. Ma ogni cosa ha un prezzo.

— Pagherò, lo giuro.

Una vita. Io ti do ciò che più desideri e che la vita non ti ha dato, ma in cambio voglio la vita a cui tu più sei legata. Da ora hai esattamente dieci primavere di tempo per pagare. Ricorda, non un giorno di più.

Così come è apparso, il fumo dolcemente scompare lasciandomi sola nel cerchio di carboni. Mi sembra di essermi svegliata da un sogno e non capisco se ciò che ricordo è accaduto davvero oppure l'ho soltanto immaginato.

Faccio un passo per tornare sul sentiero, ma un bruciore intenso alle ginocchia mi costringe a fermarmi. Abbasso lo sguardo e distolgo gli occhi alla vista delle ustioni lasciate dai carboni. Mi faccio coraggio e, nonostante il dolore, cerco di togliere con le mani il terriccio che vi è rimasto appiccicato, ma mi basta poggiarci sopra il palmo per sentire una strana sensazione di acqua fresca sulla ferita, mentre una luce come di luna penetra tra le dita. Allontano subito la mano e quello che vedo mi fa spalancare gli occhi.

Non ci credo. Non è possibile.

Il mio ginocchio è perfetto, come se non fossi mai caduta. Come se avessi fatto una magia.

Mi alzo e scruto il cielo che il sole nascente ha tinto di rosa.

Ricorda. Dieci primavere.

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