20. Incomprensioni

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«Non ti ho vista in sala relax. Di solito, sei una delle prime ad entrare. Ho pensato ci fosse qualcosa che non andava, così sono venuto a cercarti. La porta del bagno era chiusa a chiave, sapevo fossi lì dentro. Avevo il terrore che potessi esserti fatta del male. Al solo pensiero di perderti, sono impazzito» mormora, per poi baciarmi la fronte. «Cosa è successo, piccola?» mi chiede con la sua delicatezza.

Deglutisco, ma ho la gola secca. Sembra capire, così mi passa la bottiglietta d'acqua. La afferro, ringraziandolo con un debole sorriso, e poi bevo alcuni sorsi. La freschezza del liquido mi fa riprendere un po' del mio colorito, seppure pallido. La adagio sul comodino, sedendomi sul letto. Non aggiunge nulla, ma prende posto accanto a me. Apprezzo i suoi gesti, il suo essere indiscreto, il suo essere comprensivo. Mi dà il tempo di pensare e di riflettere. A volte, un ragazzo come lui non lo merito davvero.

«Mi ha scritto» pronuncio titubante. «Vuole vedermi, ma io non me la sento. Non sono riuscita a perdonarlo ancora» affermo.

«Devi fare solo ciò che ti senti ed hai tutto il mio sostegno, lo avrai sempre. Non devi sentirti in dovere di giustificarlo o di scusarlo, se non è quello che vuoi. È normale provare del rancore, perché la cicatrice non si è ancora completamente rimarginata e non vuoi che si espanda di più. Sappi che io sono qui, accanto a te, perché ti amo» poggia le sue labbra sulle mie.

«Ti amo anche io» gli accarezzo i capelli. «Vorrei dimostrartelo di più»

«Non ce ne è bisogno, ho imparato a capire i tuoi gesti»

E mi bacia di nuovo.














«Alvis, smettila» mi ritraggo dal suo tocco. «Quello che faccio con Alberto non sono affari tuoi, se voglio stare con lui ci sto» rispondo stizzita.

«Non lo accetto. Dopo che ti ho aiutata in questo mese e mentre tu soffrivi, lui se ne sbatteva di te. Usciva con Giordana come se niente fosse, rideva e scherzava» sputa acidamente.

«Non ti permettere di giudicarlo, tu non lo conosci»

«Adesso, lo difendi anche? Sei veramente incredibile.»

«È il mio fidanzato, stanne fuori» mi alzo, lasciandolo seduto al tavolino del bar.

«Quindi, ora siete una coppia? Ti giuro, non ho parole. Sono io che ti amo, non lui»

«Se mi amassi sul serio, dovresti rispettarmi. Invece, mi stai giudicando. Non sono una ragazzina, il sentimento che provo per Alberto è puro. D'ora in poi, non mi rivolgere più la parola se non per il duetto. Non devi neanche toccarmi o sfiorarmi. Io non ti amo, Alvis. Fattene una ragione» sentenzio.

Salgo velocemente le scale, per poi sbattere la porta. Prendo il borsone da sotto al letto, apro l'armadio e prendo i vestiti per poi riporli dentro in fretta. Indosso il giubbotto ed alzo la lampo, fino a copirmi il collo. Infilo il cappello ed il cappuccio della felpa, per poi uscire dalla stanza senza essere vista. Scendo i gradini, poi esco dall'OC Hotel. Mi incammino, allontanandomi sempre di più. Mi siedo sul muretto, realizzando che non so dove andare. La Serbia è distante ed a Roma non ho nessuno. Poi ripenso alla casa a Gorizia, piena di ricordi e di foto di un'infanzia felice seppure breve. Frugo tra le tasche e trovo le chiavi, non le avevo mai gettate. Sarebbe stato come cancellare l'unica parte della mia vita di cui sono orgogliosa, l'unica di cui abbia memoria. Mi dirigo verso la stazione Tiburtina e noto che il prossimo treno parte tra venti minuti.

Poggio la spalla sulla colonna, afferrando una sigaretta dal pacchetto e sistemandola tra le mie labbra screpolate dal freddo. Non sono mai stata una fumatrice incallita, ma sono nervosa e la nicotina aiuta a calmarmi -oltre ad Alberto. Improvvisamente, mi paralizzo. Lui non sa che sono scappata. Sicuramente l'indomani se ne sarebbe accorto, vedendo la mia camera vuota.

Black & WhiteWhere stories live. Discover now