20. Incomprensioni

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Tish's pov

Guardo il display del telefono. Chiudo gli occhi, sperando che appena li riapro, il messaggio scompaia magicamente. Invece, è ancora qui. Sono poche parole, ma pur sempre di impatto. Forse, ci ho sperato per tanto di quel tempo che ormai ho smesso di tenerne il conto. Ma quel giorno non è mai arrivato, così mi sono arresa.

Mi sono convinta che non me la sarei dovuta prendere se non fosse accaduto. In fondo, però, perché ci ho creduto? Per caso, non so come è fatto? Non è cambiato e, di sicuro, non lo ha fatto proprio adesso. È sempre lo stesso, me lo ha dimostrato tante volte. La domanda, no, quella non è la stessa. Se prima pensavo "tornerà?" ora mi chiedo "perché è tornato?". Perché rovinare il mio momento? Perché continuare ad infliggermi altre pene? Perché riporre di nuovo fiducia in lui, quando so che in un modo o nell'altro mi tradirà di nuovo? Perché scrivermi dopo dieci anni? Perché sprecare la sua vita, investendo in qualcosa di futile e privo di interesse? Ma, soprattutto, perché è successo a me?

Ogni giorno ad aspettarlo davanti a quella finestra, sempre impolverata, e dalle tende scolorite. A scendere le scale correndo, per poterlo abbracciare, per potergli dare un bacio sulla guancia, come ho sempre fatto. A vederlo solo nei weekend, quando tornava dal suo lungo viaggio, quando guidava la sera, nonostante la stanchezza. E poi, poco dopo, ad osservarlo da lontano, dietro la colonna dell'ingresso, seduta sui gradini, mentre litigava con Boris o mentre ingurgitava litri di alcol disteso sul divano. A non avvicinarmi neanche quando era sobrio, per paura che potesse urlarmi addosso, per paura di ricevere uno schiaffo per colpe che non avevo.

Come ci siamo finiti in questo vortice di menzogne, mezze verità e scontri? Perché non siamo rimasti gli stessi, io quella bambina felice che giocava nel parco e tu quello che mi rincorreva per farmi il solletico? Perché sono cresciuta troppo in fretta, dimenticandomi di essere piccola? Perché adesso, papà?

Mi asciugo una lacrima, nascondendomi in bagno. Chiudo la porta a chiave, lasciandomi cadere a terra. Soffoco i singhiozzi, rileggendo quella stupida frase.

Почнимо поново, Тити?

La rabbia prende possesso del mio corpo, facendomi scagliare il telefono sul pavimento. Come può chiedermi di ricominciare, dopo tutta la sofferenza che mi ha causato? Come può chiamarmi Titi, quando lo usava la mamma? Era il suo soprannome e lui lo sa bene, per questo me lo ha scritto. Vuole farmi crollare e, sì, ci è riuscito di nuovo. Lacrime amare mi rigano le guance, dalla mia bocca escono solo ansimi. Mi copro il volto con la felpa, raccogliendo le ginocchia al petto. Sento che mi manca il respiro, l'ansia mi assale. Le pareti sembrano stringersi, mi vogliono schiacciare, sovrastare. Qualcuno grida fuori, ma mi porto le mani alle orecchie. La voce è uguale alla sua, ma non può essere lui. Non sa che sono qui, non sa dove mi sto rifugiando, perché lui non mi conosce.

Il suo tono è sempre più elevato, sembra disperato. Batte con forza sulla porta, quasi a volerla rompere. Poi, il nulla. Cala il silenzio. Adesso, la sua voce è flebile. Mi sta pregando di uscire, così lentamente mi alzo da terra. Incamero aria, per poi farla fuoriuscire dalle mie labbra. Devo calmarmi, gli attacchi di panico non devono farmi sentire impotente. Così, giro la chiave nella toppa. Due scatti e sono libera, posso tornare a respirare. Apro la porta, ma davanti a me non c'è mio padre.

C'è Alberto.

«Mio dio, mi hai spaventato a morte» sussurra, venendomi incontro. Mi stringe tra le sue braccia ed il suo profumo mi fa sentire al sicuro. «Perché stai piangendo?» sibila dolcemente, mentre passa il pollice sulle mie gote.

Abbasso lo sguardo, mentre un tremito mi fa rabbrividire. Mi abbraccia fortemente, mentre mi culla. È l'unico in grado di farmi stare bene in questo momento.

Black & WhiteWhere stories live. Discover now