Memo perduta 12 - E adesso si sentiva solo

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E adesso si sentiva solo, abbandonato dalle forze, dai pensieri e dalle emozioni: tutte e tutti indistintamente; rimaneva solo la solitudine. Cucendosi addosso la coperta pesante nel tentativo vano di scacciare dal suo corpo almeno il freddo, provava a trovare un leggero sollievo nei confortanti ricordi, quei pochi che riusciva a ripescare dalla sua ormai annebbiata memoria. La fantasia era diventata un tutt'uno con la realtà e per distinguere oggettivamente quelle due cose era ormai necessario inventare un nuovo tipo di luminol o forse sarebbe bastato un delicato acido profumato che li scollasse piano, senza danneggiare nulla al suo passaggio. Ma tutto questo continuava ad accadere solo nella sua mente e, per quanto ne fosse conscio, non riusciva a farlo smettere; si lasciò semplicemente cullare dal suo ritmico pulsare.

Riemerse Vienna, con le sue vie ampie e ariose, con i suoi vicoli bui e angusti, con i suoi maestosi e svettanti palazzi, con il povero e ritirato fiume a tagliarla in due. E con essa riemerse tutto il resto, tanti schizzi di accadimenti tutti collegati tra loro di seguito come bacche di ribes al grappolo: brevi quanto il loro diametro, accesi quanto il loro colore. Si ricordò dell'odore perenne e insondabile che aleggiava nell'aria, dell'atmosfera che si era creata pian piano, del dolce rumore di sottofondo delle nostre risate o dei nostri racconti. Improvvisamente ne ebbe nostalgia, ma non tanto del gusto del nuovo o dell'avventura, quanto del sapore sempre fresco e inaspettato della semplicità, della gioia che veniva con poco, dei sorrisi che crescevano da soli, senza nemmeno il bisogno di pensarci. Per lui questo era stata quella città fluviale, un atto di crescita, una prova alla vita. Per una volta aveva trovato una persona che accendesse in lui qualcosa, senza però averla cercata, senza che se lo aspettasse. Eppure quella persona l'aveva vista prima di allora, avrebbe potuto benissimo ricordare quel volto, se non fosse che non l'aveva mai guardato sotto quella luce, non l'aveva mai inquadrato in quel modo.

E tutto a un tratto quella città era diventata molto altro, non un semplice viaggio, non un estenuante quanto inutile dispendio di tempo e di microplastiche sull'asfalto, ma era diventata la sede del romanticismo, della possibilità, del caso fortuito; non l'avrebbe mai potuta rivisitare senza far risorgere tutte quelle memorie, nemmeno solo con la mente. Per lui quella persona era entrata nei suoi giorni e nel suo cervello senza chiedere minimamente il permesso, senza alcun tipo di preavviso, ma nonostante questo, non era mai riuscito a scacciarla, a sospingerla fuori, come invece era solito fare con chiunque non rientrasse negli schemi ben precisi ed ordinati della sua vita. L'aveva lasciato fare. Era entrato dentro di sé e aveva cominciato a spostare cose a suo piacimento, un tocco qui e un po' più di luce qua: ne aveva coperte alcune e ripulite dalla polvere altre, mettendoci impegno e dedizione addirittura per disseppellirle da sotto strati e strati di detriti e sporcizia. Aveva lasciato la sua firma su un muro e, senza proferir parole, aveva richiuso tutto e dall'esterno nulla sembrava mutato, dall'interno invece il suo passaggio si era fatto sentire eccome, al punto tale da rendere irrimediabili le sue modifiche. Allora aveva cominciato a domandare, a chiedergli cosa volessero significare tutti quegli sbuffi di colore e magia che gli aveva mostrato e cominciò a comprenderlo, o quantomeno a tentare di farlo, perché ogni volta che riusciva ad inserire un nuovo pezzo nel puzzle che stava componendo a suo nome, questo portava con sé ancora più incastri del precedente, alle volte perfino alcuni mai visti prima: gli accostamenti più inaspettati.

Tentava con tutte le sue forze di prevedere, di intuire che piega avrebbe potuto prendere quella grande composizione al suo completamento, cosa avrebbe mostrato sulla sua superficie, ma nulla gli saltava all'occhio, pur nell'enormità del numero dei pezzi già in suo possesso, quell'aura di vago e di mistero rimaneva ad aleggiare su di essa; ma non era colpa sua. Egli provava con tutte le sue forze a richiamare alla mente tutto l'impegno che aveva profuso per dare un senso compiuto a quell'inspiegabile ed imprevisto progetto che stava portando avanti, ma anche solo ricordarlo nella sua interezza richiedeva ulteriore impegno. Se ancora era impossibile vederlo realizzato, questo non dipendeva da lui, ma da quali pezzi riceveva. Poteva anche essere il migliore a trovare le combinazioni perfette, ma quella persona faceva sempre in modo di mettergli tra le mani esattamente il numero minimo di pezzi che, pur mandando comunque avanti il tutto, facesse rimanere pur sempre insondabile il quadro generale della faccenda. Questo perché era nella sua natura, in fondo nessuno lo conosceva appieno, nessuno poteva dire di averlo letto come un libro aperto, perché egli aveva già tradotto in lingue perdute ormai il suo libro, perché era già destinato a fallire fin da subito, nel mettere in ordine le pagine, chi provava ad approcciarsi a lui. Ma questo scoglio non lo aveva spaventato e poteva dire anche di essersela cavata, senza aggettivi di sorta, seppure uscendone leggermente scombussolato.

Era proprio quel vento che lo aveva investito di foglie secche che quel ragazzo aveva portato con sé, ciò che più lo affliggeva e continuava a farlo. Certo, c'era stata la contentezza, l'euforia del momento, ma gli alti non erano mai riusciti a compensare i bassi tanto a lungo. Era sempre caduto e ricaduto, procurandosi ematomi e ferite sanguinolente e avrebbe benissimo potuto scendere da quella giostra, lasciare tutto e ritornare alla sua vita normale, ma non ci riusciva. Perché aveva capito che quella carta velina che componeva il suo mondo prima del suo arrivo non era la realtà; lui l'aveva strappata a poco a poco rivelando ciò che si nascondeva dietro e non poteva più tornare a fingere che tutto ciò fosse piacevole allora. Eppure insieme ad un'enormità di sensazioni piacevoli lui aveva portato anche quel dolore sordo e costante che non voleva andar via, quel senso di rifiuto misto a incomprensione che gli attanagliava lo stomaco; non era colpa sua, non gli aveva certo promesso nulla, ma nella sua mente non funzionava così, il conto non tornava. Perché gli si era avvicinato allora, perché passo dopo passo lo aveva fatto interessare a lui a tal punto da potersi quasi definire innamorato di lui, se poi non riusciva a reggere la sua presenza, gli sguardi della gente, le poche parole che si scambiavano?

Perché questo era anche un altro problema che per lui era passato oramai da tempo, ma che per quel ragazzo era del tutto nuovo. Scendere a patti con sé stessi, crederci prima personalmente e poi fare in modo che anche chi si ha attorno lo supporti e lo comprenda non è semplice, affatto e non lo biasimava se era impaurito a morte, se non riusciva neanche a dirselo nella mente, ma avrebbe potuto aiutarlo in ogni momento, offrigli una spalla su cui appoggiarsi, un paio di orecchie che lo avrebbero ascoltato sfogarsi e forse anche molto di più, se solo glielo avesse permesso, se solo l'avesse voluto davvero. Ma anche in questo frangente non sapeva come comportarsi, perché non riusciva a capirlo, perché, come si era perfino auto-definito, rimaneva un costante punto interrogativo che non riusciva a separare dal resto della frase per trasformarla in affermazione. Per questo non gli aveva offerto nessun soccorso, nessun conforto, avrebbero potuto giungere sgraditi e non voleva rovinare tutto.

Non voleva che una risposta potesse far crollare tutto quel castello di carta che forse aveva creato anche da solo attorno a quella persona, che forse nemmeno se ne era resa conto, ma che era fin troppo fragile per poter resistere a qualsiasi altro tipo di scossa. Gli piaceva quando gli raccontava di suo padre, per quanto straziante fosse anche solo il pensiero di quella perdita, ma sentiva che se lo faceva era perché si fidava di lui e almeno in quello non si chiudeva in sé stesso. Ciò che non gli piaceva invece, era proprio la sua essenza da riccio, quell'esserino indifeso che spera di tenere tutto fuori avvolgendo addosso al suo intero corpicino quell'effimera corazza di spine grigiastre; gli faceva tenerezza quell'immagine perché sapeva che quei brevi e flessibili aculei non sarebbero mai riusciti a trattenere l'intero male del mondo esterno per sempre.

Gli faceva male il fatto che non parlassero e gli faceva ancora più male il fatto che molte delle cose che lo stavano tormentando in quel momento, il ragazzo magari non le aveva neanche mai pensate e tutto quel cruccio apparteneva solo a lui e stava a lui liberarsene, nonostante non fosse affatto colpa sua. Si accorse che stava piangendo quando oramai era troppo tardi, quando si era lasciato troppo andare in quella viscosa tristezza, in quella densa malinconia, nostalgia di cose mai accadute e che mai sarebbero accadute se il mondo avesse continuato a girare in quello stesso modo ancora e ancora e ancora, per sempre. Ma quello è il compito del mondo, non può cambiare per una persona sola, nonostante fosse certo che non fosse l'unico sulla faccia della Terra a non stare alla grande in quel momento. Stava a lui dare una sterzata secca alla sua vita, stava a lui tentare il tutto e per tutto, stava a lui parlare, per quanto non ne potesse più di sentire solo il suono della sua voce e nessun'altra.

Per ora però si stava addormentando e le lacrime cominciarono a scemare insieme ai singhiozzi e ai nodi in gola: il ronzio si era finalmente acquietato, ma la solitudine era sempre la stessa, il senso di abbandono era sempre fermo lì, pronto ad incombere su di lui; era inerme in balia di quegli spettri, di quella speranza vacua che quel ragazzo si sarebbe ricordato di lui, che lo avrebbe cercato, anche solo per abbracciarlo, prima o poi.

"Ma ci nascondemmo, tutti e due sconvolti."

Memo - RaccontiWhere stories live. Discover now