Sesto capitolo.

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Sesto capitolo.

And after all, you are my wanderwall.

Sei giorni fa, era tutta un'altra storia. Sei giorni fa, se qualcuno mi avesse detto, che sarebbe andata a finire così, probabilmente, non gli avrei creduto.
Prima, c'era lui. Ora, mi sento abbandonata a me stessa.
Camice Blu ha mantenuto la sua promessa. Il nostro rapporto, per quanto precario, è stato, fino ad oggi, esclusivamente platonico.
Gli ultimi giorni, a dire la verità, sono stati un inferno.
La noia mi assaliva ovunque andassi. Ormai, quasi per routine, non riuscivo a smettere di mangiare quei budini al cioccolato.
Di tanto in tanto, mi concedevo una passeggiata, ma non osavo spingermi oltre.
Ieri, grazie a Dio, mi hanno tolto le flebo. I lividi che ho, sparsi per tutto il corpo, ne sono una prova.
Oggi, per quanto assurda possa sembrare quest'affermazione, sarà un giorno migliore.
Domani mi dimettono.
Finalmente, dopo quasi due settimane, avrò l'occasione di riscattarmi.
Eppure, non ho la più pallida idea di dove, a tempo indeterminato, andrò a stare. Certo, il primo obbiettivo sarà quello di capire chi sono e da dove vengo, ma nel frattempo?
Come se non bastasse, sono, irrimediabilmente, al verde; non ho un soldo.
Nonostante tutto, però, mi rasserena la prospettiva di una vita migliore.
Volente o nolente, mi è stata data l'occasione, per ricominciare.
Ho così tanti pezzi da rimettere al loro posto, che quasi faccio fatica a contarli.
Eppure, sento che mi manca qualcosa. Per quanto io mi sforzi ad ammettere il contrario, mi manca lui.
Sono una vigliacca, lo so, ma non importa: non ho il coraggio, per dirlo ad alta voce.
I conti con me stessa, probabilmente, li dovrò fare fuori di qui.


Sono seduta sul letto: le mani appoggiate al materasso e le gambe a penzoloni.
Oggi, fa più freddo del solito.
Indosso un paio di calzini bianchi, non abbastanza lunghi, però, da potermi coprire il polpaccio.
Lancio un'occhiata alle mie spalle, guardando il cielo, al di là della finestra.
Il tempo rispecchia il mio umore; piove a dirotto, tuonando, di tanto in tanto.
Sono le sei e mezza.
L'orario di visita è cominciato da un pezzo. A quest'ora, bene o male, tutti saranno alle prese con i propri cari; tutti, eccetto me.
Questa mattina, l'infermiera ha dimenticato di chiudere la porta e, da allora, è rimasta aperta.
Nel frattempo, ho approfittato  dell'occasione, per spiare coloro che andavano e venivano.
Un episodio, in particolare, mi è rimasto impresso.
Erano le quattro di pomeriggio, quando un gruppo di bambini spingeva la carrozzina, leggermente fuoriuso, di una signora anziana. Ricordo che, per quanto ridicolo, ho provato invidia e angoscia.
Mi sono chiesta, ripetutamente, che cosa si possa provare, quando ti senti,  incondizionatamente, amata da qualcuno.
Deve essere, secondo me, una sensazione rigenerante.
In bocca, purtroppo, ho ancora il sapore amaro dell'ignoranza.
Stamani, se non altro, mi sono arrivati dei fiori. Sono delle margheritine.
Non ho la benché minima idea di chi possa essere stato; non c'era nessun biglietto a carico. Eppure, nonostante tutto, ne ho apprezzato il gesto.
Sollevo le spalle, sospirando.
Ad un certo punto, una bambina entra, tutta trafelata, nella mia stanza.
Si guarda intorno, facendo un giro completo su se stessa. Tra le mani stringe, con forza, un orso di peluche.
Inclino il viso di lato, sentendo nascere, sulle mie labbra, un sorriso spontaneo.
Probabilmente, deve essersi persa.
"Ciao" mi dice, dondolandosi da una parte all'altra.
"Ciao."
Agito le dita di una mano, inumidendomi il labbro inferiore con la punta della lingua.
È adorabile.
"Hai visto la mia mamma?"
Scuoto leggermente il viso.
"No, piccola. Come ti chiami?"
"Giulia."
"Bene, Giulia. Io sono Josephine, piacere di conoscerti. Se vuoi, però, posso aiutarti."
Sul faccino candido della bambina, spunta un sorriso entusiasta, mentre, con enfasi, annuisce; mi si stringe il cuore.
Balzo giù dal letto.
"Andiamo."
Le afferro la manina paffutella, avvicinandomi a lei. Le sue dita, seppur piccole, si stringono alle mie in un abbraccio morbido e sicuro.

Vaghiamo per i corridoi dell’ospedale per venti minuti circa: della madre, nessuna traccia. L’ascensore ha un sussulto e le porte si aprono. Un ciuffo malandato mi colpisce la guancia, mentre distrattamente esco dall’abitacolo. Accidenti. Spalla contro spalla. Corpo contro corpo. Una familiare scarica elettrica si propaga lungo la mia spina dorsale. Merda. Merda. Merda. Devo smetterla di imprecare, altrimenti avrò un attacco di nervi qui e ora.

“Scusi, non volev..” La voce gli muore in gola, non appena alza gli occhi per scrutare i miei. Rimango pietrificata. I muscoli si rifiutano di rispondere agli imput del cervello e viceversa.

“Josephine?” Deglutisco, cercando di riacquistare quel po’ di contegno che mi è rimasto. Annuisco più a me stessa che a lui. “Cosa ci fai qui?” Camice Blu fa scivolare lo sguardo da me alla bambina, aggrottando le sopracciglia più confuso di prima.

“Si è persa.” Mormoro con la voce roca. “La sto aiutando a cercare la madre.” Aggiungo. L’espressione di Camice Blu si illumina, come se da quella rivelazione dipendesse la vita di qualcuno. Si gratta la nuca, tirando le labbra in un sorriso non tanto convincente. “Oh..” Tutto qui? Davvero? Dopo sei giorni mi aspettavo qualcosa di più. Ora sono più furente che mai. Vorrei dirgliene di tutti i colori, ma sono consapevole di essere in un ospedale e di avere per le mani una bambina. Evito il confronto diretto e giro sui tacchi, lasciandolo imbronciato. Cretino, stupido, idiota. La lista è lunga.


“Grazie per essersi presa il disturbo.”

“Ma si figuri.” Sorrido, mentre lascio scivolare lo sguardo sulla bambina nascosta dietro le gambe della madre. Uno spasimo improvviso mi fa indietreggiare.

Flashback:

“Mamma, vieni a prendermi.”

“Ci puoi scommettere.” La donna corre. Corre più forte che può all’inseguimento della figlia che si è andata a nascondere dietro un cespuglio. La bambina ride sotto i baffi, accucciata tra i fili d’erba che le colorano le scarpe di verde. Si attorciglia il gambo di un fiorellino di campagna su di un dito, tirando poi con insistenza fino a strapparlo. La mamma cammina sulle punte dei piedi per non far rumore.

Le tempie mi pulsano. Il cuore scalpita all’interno della gabbia toracica. Le gambe cedono. Il respiro si ferma. E poi buio.


“Josephine, svegliati.” Un sussurro caldo mi sfiora l’orecchio, catapultandomi senza preavviso nella realtà. Voglio aprire gli occhi, ma non ci riesco.. provo a parlare, ma le mie labbra sono sigillate. Nessun verso. Nessun segno. E precipito di nuovo nell’oblio.

“Si può sapere perché cazzo non si sveglia?” Di nuovo quella voce, la sua voce. Camice Blu è arrabbiato, di nuovo. Non voglio che sia arrabbiato. Protesto, ma nessuno sembra sentirmi. “Ha avuto una crisi, devi darle del tempo.” Mi aggrappo a quelle parole come ad una scialuppa di salvataggio, ma le mie mani scivolano e.. oh no.

“E’ tutta colpa mia.”

“Non è vero.”

“Non le sono stato vicino.” Perché è tutto così difficile? Vengo strappata via da lui, ancora e ancora.. ma quando finirà tutto questo?

Un lieve torpore si dirama lungo il muscolo del mio braccio sinistro. Muovo in uno spasmo appena percettibile il mignolo e sento che finalmente le palpebre si sono fatte meno pesanti di prima. Le sbatto lentamente, mugolando per il formicolio al piede. Giro distrattamente il viso, appoggiando la guancia al cuscino. Camice Blu ha il viso rivolto verso il basso, la fronte premuta contro il materasso. Sta dormendo? Alzo con fatica una mano, sfiorandogli i capelli sulla nuca con i polpastrelli. Sono così morbidi che la tentazione di affondarvi tutta la mano è troppa. Sento il suo respiro farsi via via meno regolare, fino a quando due grosse iridi color caramello non si impuntano nelle mie.

“Cazzo, era ora.” Esclama, afferrandomi il polso da un’estremità all’altra.

“Ciao anche a te.” Borbotto. Sinceramente avrei preferito un’accoglienza meno “cazzo” più “bentornata”. Camice Blu si porta delicatamente il dorso della mia mano sulle labbra, sfiorandone le nocche per poi depositarvi un casto bacio. Sorrido e tutto sembra tornare al suo posto.

“Mi sei mancata.” Mormora contro la mia pelle.

“Anche tu.” Biascico con la voce impastata.

Quanto tempo ho dormito?


Ad un passo da te. (IN REVISIONE)Where stories live. Discover now