Terzo capitolo.

1K 42 1
                                    

Terzo capitolo.

Non contiamo i soldi, non contiamo gli anni, non contiamo niente. Non conta questa gente che, morbosamente, fa la fila, per guardarci come un incidente.

I raggi del sole filtrano dalla finestra, creando una luce soffusa in tutta la stanza. Piego le ginocchia, portandomele al petto. Infilo un braccio sotto al cuscino e arriccio la punta del naso. Con la mente, ripercorro gli ultimi due giorni: i pensieri si affollano di ricordi devastanti, ma allo stesso tempo, piacevoli. Sbadiglio, esausta. Non appena apro gli occhi, un'infermiera entra nella mia stanza. Tempismo perfetto.
Indosso il mio sorriso migliore, mentre la guardo venirmi incontro.
“Buongiorno signorina Thobson, oggi come si sente?”
La osservo dal basso verso l'alto; è una donna tozza, sulla cinquantina. I capelli corti le si allineano in un grazioso caschetto, mentre gli occhi vispi e allegri seguono le movenze del suo indice che, imperterrito, scorre sulla mia cartella.
Faccio un resoconto dettagliato di quale sia, in realtà, il mio stato d'animo.
Emotivamente, mi sento uno straccio. Fisicamente, al contrario, non faccio altro che progredire, giorno dopo giorno.
Appoggio entrambe le mani sul letto, sollevandomi quanto basta, per mettermi seduta.
"Non c'è male."
Biascico; la voce impastata e rauca.
L'infermiera inclina il viso di lato, soppesando, guardinga le mie parole. Non so perchè, ma non ne sembra affatto convinta.
Scrolla le spalle, girandomi attorno. Controlla, come da protocollo, la sacca di soluzione salina, appesa ad un'asta in acciaio inossidabile.
“Qui è tutto in ordine.”
Gracchia, storcendo le labbra.
“Torno più tardi.”
Annuisco, lisciando, nel frattempo, le pieghe del lenzuolo.
"A dopo."
La seguo con lo sguardo, sporgendo leggermente il collo in avanti. Non appena sento la porta chiudersi, sospiro di sollievo. Non mi piacciono le visite mattutine; sono frustranti.
Mi abbandono contro la testiera del letto, socchiudendo gli occhi. Sono un fascio di nervi. Mi sento come se stessi giocando a mosca cieca sul pendìo di un burrone.
Un profumo di muschio inizia a circolare  nell'aria.
Sbatto le palpebre, sapendo, perfettamente, a chi appartiene.
Camice Blu entra ed io, quasi come se fossi una bambina alle prese con la sua prima cotta, sento il mio stomaco contorcersi. Arrossisco, mio malgrado, fino alle punte dei capelli. Una volta tanto, mi piacerebbe avere il controllo della situazione.
Camice Blu ridacchia, prendendosi gioco di me. Sa l'effetto che mi fa, il bastardo.
Gli faccio un po' di spazio sul letto, spostandomi verso le sbarre di sinistra.
L'ago della flebo, nonostante i miei movimenti cauti, si sposta di qualche millimetro, provocandomi una lieve scossa di dolore.
Camice Blu, dal canto suo, si siede accanto a me, sistemandosi i pantaloni. 
“Spero che tu ti senta meglio. Ti va di andare a fare una passeggiata?”
Le parole di Zayn mi danno il colpo di grazia. Il mio cuore manca, letteralmente, un battito cardiaco, dandomi l'impressione, di essersi fermato. Eppure, dopo pochi secondi, riprende a scalpitare, come se nulla fosse successo.
Mi ammutolisco, sovrappensiero. Le preoccupazioni, anche se per pochi attimi, svaniscono; la mente si svuota. 
Espiro l'aria che, a dirla tutta, non sapevo nemmeno di star trattenendo.
Cerco di darmi una regolata, minimizzando, dentro di me, l'accaduto.
Ripeto, silenziosamente e più volte, la sua domanda. Potrei quasi farci l'abitudine.
“Dici sul serio?”
Il mio tono di voce, per quanto impassibile abbia provato ad essere, risulta, al contrario, estasiato.
Inarco le sopracciglia, non appena Camice Blu fa scorrere, da dietro al proprio corpo, una sedia a rotelle.
"Stai scherzando?"
Mormoro, con disappunto. Zayn scuote fermamente il viso: l'orgoglio è leggibile nei suoi occhi.
Mi copro il viso con una mano, sfregandomi, con vigore, le palpebre semichiuse.  
"No, per nulla.”
Il suo sorriso, se non fosse per lo sgomento, sarebbe fin contagioso.
Emetto un grugnito, per indicare quanto grande possa essere la mia esasperazione.
“Senti..”
Tento un approccio diverso, sforzandomi di mostrarmi accondiscendente.
“Apprezzo il gesto, davvero, ma..”
Zayn mi ferma, sollevando il palmo di una mano all'altezza del mio viso. Il suo sguardo, ne sono più che certa, non ammette repliche.
Alzo gli occhi al cielo, rassegnata. Discuterne, a questo punto, sarebbe del tutto inutile. Mi arrendo, volente o nolente, di fronte ad un'esperienza della quale, detto francamente, potrei farne anche a meno.  

L’aria fuori è frizzante: fresca, ma al punto giusto. La primavera è alle porte, mentre l'inverno, ormai, si prepara a levare i battenti. Probabilmente, a quanto dicono gli esperti, questa sarà un'estate piuttosto  torbida.
Inclino il viso all'indietro, contemplando la serenità che mi circonda.
Camice Blu guida, alle mie spalle, la carrozzina lungo un viale ciottolato, avvolto da arbusti di ogni tipo. Il prato, ben curato, invita la gente a stendercisi sopra.
Chi lo avrebbe mai detto, che un posto tanto meraviglioso potesse trovarsi all'interno di una struttura ospedaliera.
Sorrido, guardando Camice Blu. Infondo, il gioco, in questo momento, vale decisamente la candela.
La sedia a rotelle, ed io insieme a lei, si ferma ai piedi di una panchina arruginita. Zayn, attento e premuroso, mi rimbocca la coperta, facendo attenzione a non spostare, di troppo, il tubo della flebo.
Infine, Camice Blu si siede sul bordo della panchina, non tanto lontano da dove sono io; accavalla le gambe, distendendo le braccia lungo il ferro battuto, ai lati del suo corpo.
“Allora?”
Aggrotto le sopracciglia. Non capisco dove voglia andare a parare.
“Allora, cosa?”
“Non è l’esperienza più elettrizzante della tua vita?”
Ridacchia, infilando la punta della lingua in mezzo ai denti. È adorabile. Ciononostante, arriccio le labbra in una smorfia compiaciuta: tutto sommato, mi sto divertendo.
“Fino a prova contraria, sarà l'unica che domani avrò modo di ricorda..” mi fermo, per un istante, a riflettere. "Aspetta un attimo.. Sei un figlio di puttana! Questo si chiama giocare sporco." 
“Non ho mai detto che avrei giocato pulito.” Faccio del mio meglio, per trattenere un risolino. Non è giusto.
Mi imbroncio, riducendo gli occhi a due piccole fessure.
“Vaffanculo.”
Controbatto, sollevando il dito medio, per dare enfasi alle mie parole.
“Oh-oh.”
Un luccichio gli attraversa lo sguardo.
Ammetto, di aver esagerato.
Liquido la faccenda, passandomi una mano tra i capelli. Mi mordicchio il labbro inferiore, giocando con le dita, intrecciate sul mio grembo.
“Tratti così tutti i tuoi pazienti?”
Azzardo, facendo del mio meglio, per non guardarlo.
Camice Blu contrae i muscoli facciali ed io, in un men che non si dica, mi vergogno della mia stessa domanda.
“Solo quelli arroganti.”
La sua espressione, da cupa e malinconica, si rilassa; il cipiglio si dissolve, lasciando il posto ad un ghigno di scherno.
In questo momento, vorrei tanto potergli dare uno schiaffo e al diavolo le buone maniere.
“Non sono arrogante.”
Incrocio entrambe le braccia al petto, oscillando il sedere da una parte all'altra. Dire che questa sedia è scomoda, sarebbe un eufemismo.
“Non l’ho mai detto.”
“Ma me lo hai fatto capire.” Borbotto.
Una voce ci interrompe. Entrambi, colti di sorpresa, sussultiamo, girandoci in direzione di una donna. A giudicare dall'abbigliamento, deve essere, a sua volta, un'infermiera.
"Signor Malik deve venire con me. È richiesto, urgentemente, in sala operatoria." "Accidenti" Camice Blu mi guarda, mordendosi il labbro inferiore. "Arrivo subito."
E così, per l'ennesima volta, vengo lasciata sola con me stessa.

Sto giocherellando con i fili del mio pigiama, quando sento qualcuno bussare alla porta. Sbuffo, convinta che sia l'infermiere di turno, arrivato, per visitarmi. Ormai, il mio corpo si sta trasformando in un campo da battaglia.
“Avanti.”
Nel frattempo, mi mordicchio l'interno guancia, osservandomi le unghie delle mani.
Camice Blu entra nella stanza; il suo passo è disinvolto, ma, al contrario, i suoi occhi sono spenti.
"C'è un problema."
Si schiarisce la voce con un piccolo colpo di tosse. Se non mi sbaglio, sta evitando, di proposito, il mio sguardo.
Trattengo il respiro, mentre architetto congetture di ogni tipo. Dalla più plausibile, a quella più surreale. Con un lieve cenno del capo, lo incito a proseguire.
“Il primario è furioso con me" si passa, frustrato, una mano tra i capelli. "Ha detto che passo troppo tempo qui dentro. Tempo prezioso, che dovrei occupare in altri modi."
Per un attimo, resto spiazzata. Sbatto le palpebre, non sapendo cosa rispondere. Infondo, suppongo sia suo compito, occuparsi dei pazienti. Eppure, una piccola parte di me sa, che il primario non ha tutti i torti.
“Zayn..”
Un minuto fa, mi sentivo indistruttibile. Adesso, mi sento in colpa.
"E non è finita qua."
Prende un respiro profondo, osservandomi come se, in qualche modo, nei miei occhi ci fosse la soluzione a tutti i suoi problemi.
"Da oggi, non sarai più una mia paziente."

Ad un passo da te. (IN REVISIONE)Where stories live. Discover now