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ATTENZIONE.
Capitolo molto angst, consiglio i fazzoletti.

Buona lettura!


Allison scese di corsa dal motorino, buttando il casco tra le mani di Scott.

Il ragazzo l’aveva accompagnata, ma non aveva la minima idea del perché si trovassero vicino all’ingresso del Mayo Clinic Hospital.

Allison non pensava, correva solo, e correva veloce: il brivido che quel messaggio le procurava le fece accapponare la pelle.

“Allison, corri all’ospedale, tuo nonno ha avuto una crisi.”

Non ancora, pensò.
Non di nuovo.

E invece era tutto vero, ancora una volta era bastato un misero messaggio a farle ricordare che la sua vita non era normale, che non andava mai tutto bene e che mai lo sarebbe andato.

Sì, perché non esisteva una vita normale quando avevi un nonno malato di Alzheimer, soprattutto poi se quel nonno non facilitava per niente le cose.

Allison corse per andare in accettazione e Scott la seguì senza fare domande non appena dopo aver messo la sicura alla ruota del motorino: l’unica cosa che sapeva è che in questo momento Allison avesse bisogno di lui.

“Gerard Argent per favore, dovrebbe essere stato ricoverato poco fa.”

Allison si sporse sul bancone verso l’infermiera, e Scott notò come la ragazza muovesse il piede ripetutamente, quasi a non poter sopportare l'idea di perdere tempo a stare ferma.

“Sì, certo, lei è?”

L’infermiera notò il foglio delle accettazioni di quel giorno, aspettando che la ragazza di fronte a lei le comunicasse il suo nome.

“Allison Argent, sono la nipote.”

L’infermiera annuì senza parlare, continuando a controllare i suoi documenti e facendo innervosire la mora.

“Posso vedere un documento?”

Allison sbuffò, tirando fuori dal portafoglio la carta d’identità con le mani tremolanti.
“Ecco.”

L’infermiera guardò la miniatura assottigliando gli occhi, poi portò lo sguardo su di lei.

“Stanza 213, terzo piano, ala ovest.”

La donna le sorrise falsamente, sorriso che Allison non vide nemmeno, essendosi già diretta verso le scale.

La mora salì, portando un piede dopo l’altro, scala dopo scala, seguita da Scott che intanto s’assicurava che andasse tutto -più o meno- bene.

Allison arrivò al terzo piano, poi continuò a camminare guardando diritta dinanzi a sé, poiché dalla prima volta che aveva messo piede in quell’ospedale s’era ripromessa che non avrebbe mai più camminato in quei corridoi guardando di lato: il solo portare lo sguardo sui letti e sulle persone che intravedeva, le faceva troppo male.

Le faceva male vedere il loro dolore, immaginare le loro storie, la loro sofferenza.

Guarderò solo avanti, si era detta, e così faceva, finché ad un certo punto era costretta a guardare nella stanza e ad incontrare quel paio d’occhi tanto simili ai suoi che col tempo s’erano fatti sempre più spenti.

Ed era il dolore più forte di tutti.

La targa “213” sostava sulla porta, portando Allison a fermarsi davanti ad essa prima di entrare.

“Hey, Allison.”
Scott le portò una mano sulla spalla, facendola voltare verso di lui.

“Non so cosa sia successo ma io mi siedo qui ad aspettarti, nel caso avessi bisogno di me: tu prenditi tutto il tempo che vuoi.”

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