Capitolo 11

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Tre anni prima

«Trevor James Ronald Campbell-Van Niekerk »

«Sembra la lista della spesa» scoppiai in una risata per l'uscita di Wes. Il nome del mio fratellastro sembrava proprio una lista di ingredienti improbabili per le torte della signora McCarthy.
«Mia madre si è impegnata per rimediare al mio nome orrendo»
Wes continuava a sistemare le sue cose nel borsone blu. Ero passata da lui perchè l'allenamento di lacrosse era stato rimandato a causa dell'influenza che si era preso il nostro allenatore ultraottantenne.
«Bianca mi piace, ha un che di esotico»
«Non credo che il nome della mia bisnonna vissuta nell'ottocento sia esotico, ma grazie per il tentativo» continuavo a fissare la foto che mia madre mi aveva inviato per il mio compleanno. Quella pazza pensava davvero che un fratellastro di due mesi fosse un regalo perfetto per una ragazzina.

«Conosci il padre?» mi chiese prendendomi la foto di mano.
«Bello come un raggio di sole in pieno inverno» Wes alzò un soppraciglio alla mia affermazione melodrammatica.
«Trevor sarà il ragazzino più bello di Cape Town, ma che dico, dell'interi Sud Africa! Biondo come il padre, gli occhi azzurri di mia madre, alto come un grattacielo» Ci stavo scherzando su, ma ero triste all'idea che lui avrebbe avuto tutto ciò che avevo sempre desiderato.
Sapevo di essere parecchio invidiosa, ma non potevo evitare di pensarci.
«Quindi pensi che io sia bello?»
Lo guardai perplessa, per poi accorgermi dell'analogia tra il suo aspetto e le mie previsioni su quello futuro di mio fratello.
«Ovvio, sei il ragazzo più bello dell'universo» confermai in tono ironico.

«Andiamo» mi esortò ignorando le mie parole e prendendo in mano il suo borsone.
Fuori il sole si avviava già a scomparire e l'aria era pregna di toni ambrati. Per tutto il tragitto Wes si barcamenò le mie lamentele sul nuovo arrivato.
Davanti al portone lo convinsi a entrare con me, mio padre lavorava fino alle undici e io non me la sentivo di rimanere in casa da sola fino a tarda sera.
Appena toccò il materasso morbido del mio letto si addormentò come un bambino, era così carino che rimasi a fissarlo per dieci minuti buoni.
Il loro allenatore, alias suo padre, lo faceva sempre stremare molto più degli altri quindi decisi di non protestare anche se stava mancando alla mansione per cui era lì, ovvero farmi compagnia.

Aveva cominciato a piovere poco dopo il nostro arrivo e il silenzio in casa era colmato solo dal rumore dell'acqua scrosciante.
Quando si svegliò erano gìa le otto passate, fuori era già buio e i lampioni stanchi e curvi erano già al lavoro. Mi cercò per tutta la casa prima di trovarmi in salotto intenta a mescolare il mio intruglio cercando di non macchiare la superficie lucida della cucina immacolata.

«Cos'è quella roba verde?» mi chiese con un espressione assonnata e curiosa allo stesso tempo.
«Hennè, è una pianta» continuavo a mescolare minuziosamente cercando di togliere tutti i grumi.
«Ma si mangia?» scoppiai in una risata mentre Wes mi guardava stranito.
«No, stupido, serve per rendere i capelli ramati»
«Non mi dire che ti vuoi mettere quella roba in testa, tu ce li hai gìa rossi»
«Non diventano mica così da soli. Non avrei mica pensato che questo fosse il mio colore naturale di capelli?» gli chiesi con tono beffardo.
«Beh, io ti ho sempre vista così»
«I miei capelli sono castani sfortunatamente» gli confessai un po' riluttante a spiattellare il mio anonimato.
Wes continuava a fissare il recipiente abbassandosi addirittura ad annusarlo.
«Voglio farlo anch'io»
«Non ci pensare nemmeno, hai i capelli troppo chiari» lui continuava a  guardarmi noncurante del mio consiglio.
«E allora?» fece spalucce.
«Allora diventeranno arancioni» gli risposi cercando di farlo rinsavire.
«La faccia di mio padre sarà impagabile» era un idea idiota, ma io acconsentì lo stesso, un po' per accontentarlo un po' perchè anch'io ero curiosa di vedere il risultato.
Si lamentò per tutto il tempo dell'odore pungente e dovetti pure aiutarlo a lavarsi i capelli, ma il risultato finale bastò a ripagarmi della fatica.

I miei capelli avevano assunto lo stesso tono caldo che gli dava di solito l'henné mentre la sua testa sembrava la punta di un evidenziatore. Quando si vide allo specchio scoppiò in una risata.
«Sembro un idiota» disse continuando a strofinarsi con l'asciugamano.
«Sei un idiota» precisai io.
Lui si voltò versò di me di scatto con espressione seria stampata in faccia e io non capii quel suo improvviso cambio d' umore.
«Lo pensi veramente?» nessun accenno di umorismo nella voce.
«No, stavo semplicemente scherzando» farfugliai ancora seduta sul bordo della vasca.
«Mi chiami sempre stupido o idiota» mi fece notare guardarmi dritto negli occhi. Il rumore della pioggia si fece più nitido e i miei pensieri inevitabilmente più inconsistenti.

«Allora da adesso ti chiamerò McCarthy, se ci tieni tanto»
«Sai che non intendo questo, basterebbe il mio nome»
Non volevo rispondere, non mi piaceva affontare quel tipo di discorso.
Sapevo di essere nel torto, la cosa più bella che mi fosse mai capitata aveva un nome e un cognome, e non erano certo quegli appellativi poco carini che gli rivolgevo, ma questo non glielo potevo dire perchè avevo paura che scappasse a gambe levate appena avesse compreso quanto ci tenessi a lui, una volta che avesse capito che la stupida ero io.
Il rumore della pioggia ormai era soffocante.
Wes si chinò su di me fino raggiungere le mie labbra. Ero contenta che
avesse deciso di far cadere quel discorso un po' troppo emotivo per i miei gusti. Non era certo la prima volta che mi baciava, ma quella sera era diverso, come se avesse deciso di farlo per evitare di dire qualcosa. Gli passai le dita tra i capelli ancora bagnati. Sorrisi a quel contatto ricordandomi il loro colore.

«Bello e stupido» sussurai.
Cominciò a baciarmi più intensamente finchè non si staccò improvvisamente lasciando il mio cuore a battere senza appoggio. Non capivo quei suoi repentini cambi di rotta così decisi, per comodità, di attribuirli semplicemente alla sua personalità.
Se ne andò. Prese le sue cose e sparì oltre la porta principale.
Seguì ogni suo movimento, con le parole incastrate tra il petto e la gola, incapace, ancora una volta, di non lasciare che le vite altrui mi scorressero addosso.
Quel mio modo, in un certo senso, egoista di agire era lo specchio della paura che provavo, paura che l'unica cosa che lo legasse davvero a me fosse la compassione. Le insicurezze in quegli anni di domande erano  scintille vivide che trovavano sempre ossigeno puro nel mio sangue.

Piansi finché gli occhi non mi fecero male,  sapevo esattamente con chi prendermela perché da brava inetta non avevo forza per odiare me stessa, ne avevo per lui peró. Me la presi con Wes perché avrebbe dovuto dimostrare di essere superiore, come aveva sempre fatto.
Mio padre entró in casa quando stavo ancora piangendo sorretta solo dal freddo della vasca 
Sentí i miei singhiozzi non appena varcó la soglia e, capendo da dove provenivano, si precipitó verso il bagno.
Quando i suoi passi si fecero  visibili ebbi a malapena il tempo di alzare lo sguardo prima di sentire le sue mani. Si mise accanto a me, seduto sul freddo pavimento, accarezzandomi i capelli e posando le labbra sui miei capelli quando, dopo un'apparente calma, i singhiozzi incontrollati ripresero il soppravento.

Mi diceva di non preoccuparmi senza mai chiedermi che cosa avesse scatenato quel panico perché succedeva spesso che avessi attacchi immotivati di quel genere.
Continuavo a piangere alternando parole confuse tra un singhiozzo e l'altro e mio padre continuava ad accarezzarmi la testa.
Solo una frase mi uscì completa e con un senso compiuto.
Non alzai la testa mentre continuavo a balbettare tra le lacrime.

"Perché ho un nome cosí brutto?"

Legami a idrogenoWhere stories live. Discover now