Capitolo 7

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Tre anni prima.

Era marzo inoltrato e l'aria profumava di polline ed erba tagliata. Qualche foglia secca ancora sotto ai piedi e il cielo limpido sopra la testa.
«Se i tuoi genitori ti avessero chiamata Marilyn ci sarebbe stato da ridere» mi disse Wes tirando un sasso nel laghetto. La povera pietra non ne volle sapere di fare due salti e andò a fondo non appena venne a contatto con la superficie dell'acqua.

«Avresti riso solo tu» gli feci notare.
Monroe è un cognome molto diffuso in Galles e lui era il primo a fare il paragone con la diva americana.
Wes continuava a lanciare sassi cercando di farli rimbalzare, forse per impressionarmi, forse per non guardarmi. Mi aveva portata al lago quel sabato pomeriggio, in verità non me l'aspettavo.

Non ero mai uscita con un ragazzo in vita mia e non sapevo esattamente come funzionassero le cose, ma ero convinta che lui fosse speciale proprio perchè aveva scelto quel posto.

«Segui il rugby?» cambió improvvisamente discorso facendomi destare dalle mie elucubrazioni.
Gli risposi di no e lui si voltò verso me.
«Sei sudafricana e non segui il rugby?» mi chiese con tono scenicamente oltraggiato, per poi dirigersi verso la panchina. Aveva una posa tutto fuorchè aggraziata: teneva le gambe distanti e le mani nelle tasche dei jeans scuri mentre la testa era poggiata contro il legno. «Se ti sentisse mio padre gli verrebbe un infarto bello e buono».

Mi sentivo un po' in soggezione quando parlavo con lui, ma cercai di sforzarmi il più possibile per tenere in vita la scintilla di quella  conversazione evitando cosí silenzi imbarazzanti.
«É appassionato?» gli chiesi anche se non mi premeva molto saperlo.
Lui annui.
«E a te non piace?» questa volta ero veramente curiosa di sapere la risposta, ma notai che un velo di tristezza gli si posò sugli occhi. «Mi alleno per fare piacere al mio vecchio, sai, perchè che lui sia orgoglioso di me» si girò verso di me estraendo una mano dalla tasca per distenderla sullo schienale della panchina facendo arrivare le dita a toccare il mio maglione rosso.

«E tu non pratichi nessuno sport?»
«Lacrosse, ma ora non ci vado più» tirai un sospiro. «Mio padre è troppo occupato per accompagnarmi e non vuole che ci vada da sola».
Wes tornò a guardare l'acqua con aria annoiata «I genitori sono bravissimi in questo»
«Questo cosa?»
«Prendere impegni che sanno di non poter mantenere» disse portando la mano ai suoi capelli pallidi.
«Già» mi girai anch' io verso il lago.

Restammo in silenzio per qualche minuto, ma non fu come avevo temuto. Non avevo più il desiderio di riempire gli spazi, perchè Wes ti faceva sentire un po' così, come se bastasse solo la sua presenza a colmare il vuoto.
«Ti accompagno io» annunciò all'improvviso senza voltarsi.
«Accompagnarmi dove?» smisi di giocare con una ciocca dei capelli e alzai lo sguardo verso di lui.
«Agli allenamenti di Lacrosse» disse come se fosse la cosa più naturale del mondo.
«Non se ne parla neanche, mi conosci da meno di una settimana»
«E allora, serve un periodo di prova prima di frequentarmi?» mi chiese girandosi verso di me.
«No no, ma non voglio essere un peso per un quasi sconosciuto» la mia voce era bassa mentre cercavo di convincerlo che quello che aveva appena detto era un' idiozia.
«Quasi-sconosciuto?» scoppiò in una risata che mi fece tremare le mani e il cuore.
«Non è un problema, sul serio, io devo andare comunque agli allenamenti di rugby e cinque minuti per passare da casa tua non mi uccideranno».

Non sapevo come ribattere, se non avessi accettato avrei fatto la figura della ragazzina petulante, ed era l'ultima cosa che volevo sembrare così acconsentii aspettandomi in cuor mio che Wes non avrebbe mantenuto la parola.

Come per tutte le cose che lo riguardavano riuscì a stupirmi. Si presentò tutti i martedì e giovedì alle tre di pomeriggio spaccate, con il suo borsone in mano e la solita aria stralunata. Il primo giornò incontrò addirittura mio padre, che gli fece una sermone sul fatto che dovesse stare attento che non mi succedesse nulla. Mi sentii una bambina, ma capivo che mio padre fosse preoccupato per me e fortunatamente lo capii anche Wes perchè per tutta la filippica annui solamente senza dire una parola.

Di lì a poco diventammo quasi inseparabili, io non avevo amicizie solide e lui divenne per me l'unico confidente. Era tutto così surreale, fino a due mesi prima viveva dall'altra parte del mondo e così dal nulla era comparso per ricordarmi che qualcuno a cui importasse qualcosa c'era. Era un momento veramente difficile per me, mia madre stava costruendo la sua nuova famiglia e io mi sentivo come in lutto per questo.

Era andata avanti mentre io spesso, la notte, sognavo ancora il cielo di Cape Town. Non ero più una bambina, ma mi sentivo ugualmente abbandonata. Lo confessai a Wes e lui mi rassicurò dicendomi che era normale essere un po' egoisti a quell'età. Parlava come se fosse un adulto con svariati anni di esperienza che dà consigli a una ragazzina inesperta, ma io mi tranquillizzai veramente perchè mi fidavo di ogni singola parola che usciva dalla sua bocca.

Sono convinta che abbia capito che ero sola dal primo momento che mi ha vista, in piedi, a esporre quella stupida ricerca sui geni. E sono anche convinta che lui si sentisse allo stesso modo, ma abbia cercato di non farmelo pesare. 

A volte i suoi amici lo prendevano in giro dicendogli che doveva smetterla di farmi da balia, ma lui non faceva una piega, mi diceva che erano solo invidiosi perchè non c'era una ragazza in tutta la Gran Bretagna che volesse uscire con loro.

A diciasette anni era già molto più sveglio di me, era innegabile, perché io alla sua stessa etá, nonostante tutto quello che faceva per me, non ebbi mai la premura di ringraziarlo ad alta voce.

Legami a idrogenoWhere stories live. Discover now