11. "Avrai successo"

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Sceso dal bus udii i potenti rintocchi della campana della chiesetta del quartiere. Nove, dieci, undici, dodici, tredici e poi si fermò. -Ho fatto tardi! Avrei dovuto prendere il bus di mezzogiorno, ma non sarei arrivato lo stesso in tempo-. Corsi a casa mentre notai qualche vecchietto passeggiare e ammirare il paesaggio primaverile del paesino. Era sempre un bello spettacolo soprattutto perché a Cantone avevano lasciato volutamente più spiazzi verdi ed era aggiunta una certa quantità di alberi di anno in anno, di cui alcuni erano pure da frutto.
Giunsi a casa col fiatone e i miei pretesero subito una spiegazione.
La bugia inventata quel mattino non resse e fui costretto a raccontare in parte la verità, escludendo il tempo passato al Parco. Non ero affatto intenzionato neppure a spiegargli l'incontro con la figura, purtroppo mio padre come al solito mi lesse nel pensiero:«Tutto qui?».
Cercai di nascondere l'angoscia che mi era tornata al solo pensiero della mostruosa creatura.
«Guarda tesoro che ci puoi dire tutto ciò che ti turba» mi incoraggiò Adele.
-Sono in trappola- dissi tra il me timoroso e il me scoraggiato.
Allora versai dalla bocca tutte le parole che fino a poco prima erano un fastidioso groppo in gola, come una cascata d'acqua.
Alla fine del racconto mi sentii molto meglio, più sollevato, sebbene ora la mia paura temeva in una bella punizione.
«Hai fatto bene a confidarti con noi, figliolo. Solo così puoi liberarti delle tue paure. Altrimenti rimangono lì dentro di te, assillandoti in continuazione» spiegò papà pacato.
«Ricordatelo bene» fece poi eco mia madre.
Non mi apparirono molto sorpresi, al contrario erano preoccupati, ma mio padre a un tratto accennò un sorriso sincero. -Si vede lontano un miglio che mi stanno nascondendo qualcosa- per un istante pensai di esprimere apertamente questo pensiero, tuttavia non lo feci su consiglio del mio sesto senso e immagazzinai solamente il consiglio di papà.
«Bene! È tutto pronto a tavola. Tesoro, vatti a cambiare e scendi velocemente» irruppe nei miei pensieri mamma.

-Un giorno o l'altro, in qualche modo, devo scoprire cosa mi mascherano- riflettei mentre salivo le scale dopo pranzo.
Adesso mi toccava studiare. "Come sarei riuscito a concentrarmi" era un'altra questione delicata.
Esitai a prendere il libro di matematica e mi sedetti.
Anche se mi distrai al passaggio di ogni moscerino, riuscii comunque con fatica a finire, totalizzando ben cinque ore di studio. Dopo mangiato, piombai sul letto a peso morto. Volevo dormire anche se era presto. Solo così avrei scacciato le inquietudini.

Invece di ricorrere al metodo delle pecore, tentai di contare i secondi sul cellulare sperando di addormentarmi, ma niente da fare. Avevo passato almeno un'ora sdraiato e non ero ancora riuscito a chiudere occhio, nonostante avessi provato qualunque metodo possibile per smarrire la mia mente tra i sogni.
-Basta- rinunciai. Mi alzai, accesi la luce della lampada e appoggiai la mani alla scrivania; rimasi in piedi titubante. Non sapevo cosa fare. Avrei preferito scappare fuori per indagare nel Parco, volevo analizzare quell'ambigua statua o sdraiarmi sull'erba che circondava il laghetto del cigno... Scacciai quell'euforia e optai per un libro che era da tempo che non aprivo. Mi piaceva molto leggere sia per allontanarmi dalla realtà sia perché mi sembrava di costruire con le parole un vero film mentale, ma in quel periodo la mia mente si rifiutava anche semplicemente di sfogliare un libro. Avevo troppe preoccupazioni per la testa per sedermi e isolarmi dal resto del mondo, però in quel momento volevo allontanare qualunque pensiero, perché ero quasi certo che mi avrebbe tormentato l'animo per l'intera notte.
Il libro era un fantasy del mitico Christopher Paolini, di cui avevo letto uno dei suoi primi libri molto vecchi, ma ancora abbastanza venduti.
Sfogliando le prime pagine non compresi il motivo per il quale ero riuscito ad abbandonarlo sulla scrivania per più di un mese. -Ma che figata!-. Andai avanti fino a quando il libro non mi cadde in faccia.
Pochi minuti dopo riaprii gli occhi e lo spostai sul comodino. Intanto mi resi conto di un notevole fresco, per cui mi dovetti coprire.
Ad un tratto sentii un leggero e freddo pizzicotto all'orecchio destro, credendo che fosse una zanzara non aprii nemmeno gli occhi e diedi uno schiaffo proprio in quel punto sperando di ucciderla. Ma ecco che ad occhi chiusi, al posto di un nero assoluto si illuminò una luce blu soffusa. Mi sbagliai, non era una luce. Si propagò ovunque come una nebbia. Poi mi giunse all'orecchio un curioso suono. -Dell'acqua che bolle?- riflettei sorpreso. Mi sbagliai di nuovo. Il mio sguardo avanzò nella nebbia e scorsi un albero rinsecchito.
-Che razza di sogno è mai questo?-
Ma non era tutto, perché notai che davanti all'albero era eretta una lapide in pietra. Automaticamente un brivido mi percosse.
Poteva bastare così. Non volevo entrare nel particolare, ma purtroppo prevase la curiosità e mi avvicinai alla lastra di pietra. Mentre camminavo, sotto i piedi, anche se non riuscivo a distinguerli nell'oscurità, percepii l'inizio di un tratto poco uniforme e in alcuni punti molliccio; era terra. Arrivato lì infatti, davanti alla lapide si delineava una parte rettangolare di terra smossa.
-Chi diavolo è stato seppellito qui?-
Si chiamava Shumba Fynn Essien Yatara vissuto per tutto il sesto secolo. -Chi è 'sto tipo? Non l'ho mai sentito nominare da nessuna parte. Deve essere per forza uno conosciuto, eppure è così strano...- riflettei subito.
Da un breve studio che avevo fatto su un sito per puro interesse personale, avevo letto che ciò che si sogna è qualcosa che abbiamo visto, anche se di sfuggita, e che ci è rimasto impresso, altrimenti può essere un avvertimento o qualcosa che le nostre emozioni traducono in qualche tra forma. Tuttavia nessuna delle tre ipotesi risultava possibile; conclusi che probabilmente mi trovavo in uno di quei sogni senza senso che talvolta mi capitavano.
Sulla tomba c'era null'altro che il nome dello sfortunato, le sue date, una croce latina e in fondo, al centro, una frase nella mia lingua nativa di cui conoscevo abbastanza i simboli, il somalo. Perciò quell'uomo era della mia stessa razza, un etiope. Non potevo avere però altre informazioni perché, anche se ci fosse stato scritto qualcosa che mi avrebbe aiutato a capirlo, non ero in grado di tradurlo.
-Guul ayaad keentay-
"Guul ayaad keentay" ripetè il mio sesto senso, senza darmi alcun suggerimento.
-Che cosa potrà mai significare?-
Passai alcuni secondi inginocchiato davanti alla lapide, ma con lo sguardo perso nel buio. Forse quello non era il modo adeguato di omaggiare quel morto, così mi alzai, ma il mio sguardo rimase fisso nell'infinito buio che pareva inghiottirmi da un momento all'altro, fino a quando rivelai una stradina che si perdeva anch'essa nell'oscurità.
"No! Non azzardarti a proseguire" risuonò il mio sesto senso.
Ormai era troppo tardi. Sarei arrivato in fondo a quell'incubo, ne avevo abbastanza di tutte le paranoie che ogni volta mi assalivano costringendomi ad arretrare, invece adesso seguivo il lungo sentiero perso nell'inquietante ignoto.

Il suono del bollire dell'acqua che avevo udito di sfuggita all'inizio, aumentava sempre di più, tuttavia non ero ancora riuscito a distinguere l'origine del rumore.
Passarono altrettanti minuti quando finalmente scorsi una luce soffusa in lontananza e incominciai ad aumentare il passo nonostante sentissi lo svelto rimbombo del mio cuore in petto aumentare incessantemente.
«Che cos'è?» esclamai con voce strozzata.
La luce proveniva da tante lanterne su una piattaforma circolare innalzata di qualche scalino, tutte posizionate intorno ad uno strano piedistallo su cui all'estremità poggiava una sorta di conca non molto larga. L'illuminazione alquanto singolare aveva delineato due figure che riuscivo a distinguere a malapena: erano una donna che cullava un bambino piangente, ma dallo stridore nella voce potei intuire che fosse ancora un neonato.
-Avanzo o no?- fu allora il mio corpo a prendere la decisione al mio posto e molto cautamente mi avvicinai ai due individui.
La donna era abbastanza giovane, di carnagione scura come il bambino raccolto in fasce, cullato tra le sue braccia. Gli cantava dolcemente un canto in lingua straniera, probabilmente era una ninna nanna per calmare quelle grida inarrestabili.
Ormai giacevo a qualche passo dalla piattaforma, e di fronte a me ergeva la donna, fu allora che li riconobbi: due orecchini circolari enormi pendevano dalle orecchie della donna. Erano azzurri, gialli e rosa, proprio come quelli dell'anziana signora che incontrai al Parco.
-Ma è lei?- ero sbalordito della scoperta, perciò non mi accorsi nemmeno di aver mutato il pensiero in parole. Tuttavia la donna non sembrò destarsi e continuò a canticchiare la canzone; fortunatamente non mi aveva sentito. Più sollevato, continuai ad analizzare i due volti: quella signora effettivamente, a parte per l'assenza di rughe, era quasi la copia esatta dell'anziana di quel pomeriggio, mentre il bambino, forse anche per il fatto che era ancora molto piccolo, non mi pareva assomigliasse a nessuno di mia conoscenza. -Allora che importanza ha questo sogno? Non mi sembra affatto un avvertimento- a meno che il bambino non fosse la chiave. Tuttavia avere un figlio a quell'età era l'ultima delle mie preoccupazioni.

Silenzio. Sussultai e credetti che la donna o il bambino oppure entrambi mi avessero notato, invece il piccolo si era semplicemente addormentato.
Ormai mi convinsi che quasi certamente ero invisibile ai loro occhi, come spesso mi capitava nei sogni.
La signora smise di cantare e cambiò il modo di sorreggere il bambino, gli mise una mano dietro la nuca e avvolse l'altra intorno alla minuscola vita, lo allontanò da sé e lo appoggiò con delicatezza dentro alla minuscola vasca "fluttuante". D'istino feci qualche passo avanti per accertarmi che il bambino non finisse sott'acqua con il capo e scoprii che all'interno della conca vi era scolpito un minuscolo lettino delle dimensioni apposite per il neonato che dormiva beato. A quel punto la donna cominciò a recitare strane formule in una lingua a me completamente sconosciuta.
Osservai stupefatto l'acqua che iniziò a cambiare colore in un blu cosparso qua e là di punti rossi poco precisi. Quella sostanza prese a vorticare intorno alla figura dell'esile piccolo fino al punto di cambiare stato e diventare un fumo sempre di quegli strani colori che il bambino ancora dormiente inspirò totalmente.
Ero allibito da quello spettacolo, non mi era passato il minimo pensiero che la situazione si sarebbe mutata in quel modo similmente equivoco. La donna invece pareva rilassata se non addirittura contenta. -C'è qualcosa che non quadra in tutto questo- riflettei sempre più convinto della mia idea.
Nell'istante in cui il bimbo inalò l'ultima parte di quel fumo, riaprì gli occhi come se si fosse risvegliato da un semplice pisolino. La donna, con un enorme sorriso soddisfatto stampato in faccia, lo prese da sotto le ascelle e lo sollevò in alto, urlando altre parole insensate.
-Che problemi ha questa signora? Che fino a poco fa sembrava una semplice madre che cullava il suo bimbo (anche se sembrava non avere più l'età per avere un bambino così piccolo)-.Quando da quelle urla afferrai tre parole che fino a poco prima di quello spettacolo inquietante mi stavo ripetendo in continuazione: «...guul ayaad keentay» e subito dopo qualcosa come «waxaad keeni doontaa guul». Affermai infatti una prima ipotesi che avevo formulato sulla donna e il bambino collegandoli alla lapide che avevo incontrato ad inizio percorso, e anzi interpretai quelle parole come un annuncio a qualcosa in arrivo di buono, perché il bambino, sorretto dalle mani della donna esultante, che fino a poco prima di addormentarsi piangeva, ora rideva.

Il buio accogliente della mia camera fece dileguare quel bizzarro e prodigioso sogno. Forse l'anziana donna voleva veramente aiutarmi e quello fu un segno per dimostrarmi di potermi fidare di lei. Ed era riuscita bene nell'intento, perché ora altre domande premevano di essere svelate: chi era l'uomo deceduto secoli fa, chi invece quel bambino e che cosa significavano quelle parole... Così mi alzai di scatto dal letto e strappai un foglio da un quaderno per trascrivere le due brevi frasi che avrei rischiato di dimenticare:
"Guul ayaad keentay
Waxaad keeni doontaa guul"
Posi il foglio nel cassetto della scrivania, così nel caso mia madre fosse entrata a controllare la camera l'indomani mattina, non avrebbe trovato niente se non dei calzini e una maglia buttati a terra.

Pit-stopWhere stories live. Discover now