Capitolo 1

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ORTICHE

Ingarbugliata fra le parole,
grovigli di ortiche che soffocano il cuore.

Clip Clap. La penna sospesa nel vuoto mentre aspetto.
Il cuore pompa il sangue troppo veloce, percepisco la pressione premere sui timpani.
La vista si annebbia e sbatto le palpebre un paio di volte quando il sapore metallico del sangue mi sfiora la punta della lingua.
Guardo lo schermo con la pagina di Word bianca. Il niente si fa strada fra i miei pensieri.
"Vuoi un caffè?" la voce del capo irrompe nella mia testa.
"Si, grazie". Sospiro, esausta.
Il cuore galoppa un po' meno nel petto se la mente rimane concentrata sui semplici gesti della quotidianità.
Mi siedo sullo sgabello dell'area break, il palmo della mano che mi sorregge la testa.
Vorrei smetterla di farmi tormentare da pensieri inutili, ma a quanto pare la mia mente si ingarbuglia da sé.
"Che succede?" domanda lui.
Una domanda alla quale non ho mai una risposta; succedono troppe cose nella mia testa.
Lo osservo, è un uomo di bell'aspetto, non che mi interessi particolarmente. Lo sguardo autoritario nasconde l'animo più umano che abbia mai conosciuto. Danny sa essere ingannevole con i suoi modi di fare, però con i mesi si è guadagnato ciecamente la mia fiducia.
"Troppi pensieri che non riesco ad assimilare, ma che vorrei scrivere".
Nell'ultimo mese non ho scritto nemmeno mezza pagina degna di essere letta da lui, mi diletto con qualche racconto per farmi strada nel mondo dell'editoria. Quando scrivo mi sembra tutto così banale, privo di significato. La maggior parte delle volte, infatti, mi occupo di correggere le bozze di aspiranti scrittori, nulla di rilevante per la mia carriera.
"Prenditi del tempo per te, i giorni di ferie li hai, approfittane". Mi porge il bicchierino con il solito caffè macchiato con il massimo dello zucchero che il dispenser offre.
Ha ragione, non vedo le ferie da mesi ormai. Sono troppo testarda per abbandonare il lavoro che sto cercando di fare con me stessa, forse dovrei affrontarmi in modi diversi. Godermi il mare e cercare di dedicarmi a un percorso zen per incoraggiare i miei pensieri a produrre qualcosa di lucido.
"Non cambierebbe molto", sono con il morale sotto i piedi. I testi che elaboro rimangono intrappolati nella testa. Sono farfuglii di parole sovrapposte, frasi aggrovigliate fra loro.
Il suo sguardo corrucciato mi scruta, fa spallucce con una non curanza che mi preoccupa.
"Ci vediamo fra due settimane". Si allontana lasciandomi sola con i miei pensieri.

Il sole è caldo oggi, ma l'aria fresca di aprile mi accappona le braccia di pelle d'oca.
Stringo il computer al petto con un braccio mentre percorro la strada di casa. Un paio di libri impilati sopra di esso.
Due settimane. Cerco di ignorare la vocina nella mia testa e mi concentro sull'orizzonte che meraviglia ogni giorno la mia vista.
Los Angeles è proprio come la descrivono nei film. I campanelli delle biciclette tintinnano, il mare ondeggia increspato dal vento e le risate dei bambini al parco riecheggiano nel quartiere.
Proprio in momenti come questi, quando meno te lo aspetti, il cuore riprende a martellare troppo veloce. Rallento il passo e faccio dei respiri profondi per calmarmi, gli occhi lucidi.
Tante domande mi corrodono lo stomaco, ma la paura delle risposte le zittisce in meno di un secondo. Quando non penso a nulla è come se pensassi a tutto. Non me ne capacito, ma la mia mente elabora da sola senza farmi percepire niente di insolito.
Guardo l'orizzonte, il sole sta tramontando e si sta facendo tardi. Mi affretto a raggiungere casa.
Due mandate di chiave e sono nel piccolo nido che nonna mi ha regalato. In questi quaranta metri quadri c'è racchiusa tutta me stessa.
Tolgo le scarpe vicino allo zerbino e chiudo la porta.
Accendo la lampada di sale in soggiorno. L'energia che mi trasmette quella luce fioca mi fa sentire bene quanto il profumo del bastoncino di incenso alla rosa che ho fra le mani. Guardo il serpente di fumo ritorcersi su sé stesso e svanire nella stanza in penombra.
Per un attimo una scheggia di solitudine mi punzecchia il cuore, poi se ne va, lasciando una misera cicatrice che nel giro di qualche ora sarà ricucita. Sono voluta fuggire lontano da casa per dedicarmi del tempo. Per sentirmi protetta nel mio guscio apparentemente vuoto. Voglio capirmi e ascoltarmi come non ho mai fatto in venti lunghissimi anni. Basta essere ostacolata da oscurità inesistenti.
Mi accoccolo nella cesta-dondolo sospesa al soffitto, la coperta cucita con le fascette dei concerti sulle mie gambe. Mi piace ricamare ogni tanto, modellare fra le mie mani i tessuti per creare qualcosa di nuovo e unico.
Guardo il cellulare. Tre messaggi.
La mamma mi chiede come sto e quando vedrà un mio libro in libreria. La ignoro.
Papà mi manda un misero sticker, è un maialino animato che manda un bacio; glielo inoltro.
Savannah mi chiede di andare a una festa stasera.
Mi stropiccio gli occhi e stiracchio le gambe. Cosa faccio?
Savannah è online e vedendo il messaggio visualizzato non perde tempo a chiamarmi.
"Ciao", strilla entusiasta. Ha una voce acuta che si sposa bene con i capelli biondo barbie e il corpo minuto.
"Ehi", mormoro.
"Passo a prenderti alle nove".
"Non ti ho detto sì", mi spunta mezzo sorriso sulle labbra. D'altronde le dico sempre di no quando mi chiede di uscire, ma lei non demorde mai nonostante i miei continui rifiuti.
Lei è l'unica amica che ho; ci siamo conosciute per lavoro, in un bar. Abbiamo passato tantissimi momenti insieme, belli e brutti, nei quali una è stata la forza dell'altra. Finché entrambe non siamo riuscite a realizzare un pezzetto di noi.
Io lavoro per un piccolo editore, lei ha aperto la sua gelateria. Devo ammettere che il gelato è buonissimo e in estate lavora così tanto da potersi permettere dei mesi di chiusura nel periodo invernale.
"Nemmeno no", ridacchia. Sicuramente con una mano regge una bottiglia di birra mezza vuota.
"Va bene", mi arrendo. D'altronde non posso sempre respingerla. La solitudine è una scheggia spessa e affilata che devo limare con amore e pazienza.
"A dopo, fatti trovare pronta!" esclama con troppo entusiasmo e riaggancia. Non mi lascia mai il tempo di ribattere, anche solo per un saluto.
Lancio il telefono sul divano, rimbalza contro lo schienale cadendo a faccia in giù sul tessuto cipria. Cosa mi metto?

Esco dalla doccia; in accappatoio entro in camera. Apro l'armadio e mi siedo sul letto.
Chiudo gli occhi, il cuore batte forte e i respiri sono densi di agitazione. Una lacrima scappa dal mio occhio destro, l'asciugo subito. Calmati, Alice. Immagino la mano di nonna accarezzarmi la nuca, come quando ero bambina. Lei notava subito gli uragani abitanti della mia anima.
Guardo i vestiti strabordare dalle mensole in legno. Paillettes. Piume. Jeans e maglioni a quadri.
Mi soffermo su una foto appesa sull'anta destra; io sono nel seggiolino della bici di nonna e lei mi sorregge tenendo fra le mani rugose il manubrio. Le unghie lunghe, con lo smalto rosso consumato dalle faccende domestiche. Il suo viso sorride.
Mi manca tanto, ma anche se tornassi in Italia potrei solo guardarla dall'unica cosa che mi rimane di lei, un album delle foto che il nonno conserva gelosamente nel comodino. Il pensiero che lei veglia su di me però mi tranquillizza, almeno un pochino.
Scelgo di indossare un tubino bianco. Ha le maniche lunghe ornate da piume sui polsi. Infilo le Dottor Martens nere, non mi importa dei tacchi se devo ballare. Voglio essere comoda. Mi trucco con un po' di mascara e un ombretto con i glitter color carne. I miei ricci ribelli sono legati in una mezza coda. Hanno il colore dei petali di una rosa sfiorita, un rosso vellutato con le punte sbiadite.
Prendo la borsa e scendo le scale.
Nel momento in cui varco la soglia del palazzo, Savannah accosta al marciapiede con la moto d'epoca che le ha regalato il padre. Credo sia una Guzzi, ma non me ne intendo troppo bene.
Non capisco come faccia a non avere freddo, è letteralmente mezza nuda. Pantaloncini, stivali sopra al ginocchio, top poco coprente e giacca di pelle.
L'aria sferza fra i nostri capelli mentre raggiungiamo la festa.

Unexpected ~ lesbianWhere stories live. Discover now