Godwin

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Godwin sollevò la pesante ascia e la calò con un grugnito. La mezzaluna d'acciaio penetrò nel tronco, in profondità. La foresta era silenziosa e fredda. L'inverno gravava come una maledizione. Anche se il Sole brillava come una moneta d'oro, il freddo ti mordeva le ossa. Lì al Nord era così.

Godwin estrasse la lama, sollevò l'ascia e la calò di taglio. La facilità con la quale penetrò nel legno fu irrisoria, e il merito non stava tutto nella forza bruta di Godwin. Il legno Tal era facile da intaccare. Una decina di colpi ben assestati furono sufficienti. L'albero si inclinò e cadde sulla neve con un tonfo attutito. Godwin si mise l'ascia a tracolla, afferrò un ramo spesso dell'albero e prese a trascinarlo. Non c'era nessuno nei paraggi a godersi lo spettacolo: un tizio grosso come il piede di un gigante, con indosso una pelliccia grigia, che si trascinava appresso un albero.

Godwin prese a fischiettare una canzone druidica. L'aveva udita una volta, tempo fa, quando era un marmocchio grosso come un adulto. Al tempo abitava nell'Entro-Terra, in un villaggio non troppo lontano dalla Montagna Spaccata. Quando l'avevano cacciato, era andato a vivere lì, nella spaccatura. Ci era rimasto per un fracco, cacciando la selvaggina e bevendo l'acqua che si raccoglieva in piccole pozze. Aveva pure sentito che ci abitava un tizio, dentro la spaccatura, e che 'sto tizio allevava le fate. Godwin non l'aveva visto ma, una notte, mentre stava disteso a guardare le stelle che brillavano nel mezzo della spaccatura, aveva notato dei piccoli puntini rosa che danzavano in alto e aveva subito pensato alle fate. Non le aveva mai viste, le fate, ma gli pareva improbabile che fossero lucciole.

Godwin trascinò l'albero sino al suo rifugio, una grotta alle pendici della Montagna d'Acciaio, e lo mollò lì davanti. Imbracciò l'ascia e cominciò a farne ciocchi di più ragionevoli dimensioni. Riuscì a tagliare mezzo tronco, poi decise che si era rotto i coglioni di spaccar legna e cominciò a trasportare nella grotta i ciocchi. Prese il primo carico e lo portò dentro. Quando mise piede nel suo confortevole rifugio (lo aveva arredato con amore, come diceva quella canzone popolare), si accorse che qualcuno l'aveva preceduto. Sul fondo della grotta, lì dove Godwin aveva acceso un fuoco che ancora scoppiettava, c'era un tizio. Stava disteso e ronfava al calduccio. Godwin mollò il carico di legna, che rotolò in tutte le direzioni con una mitragliata di piccoli tonfi acuti. Il tizio saltò su a sedere, gli occhi spalancati. Vide Godwin e i suoi occhi si fecero grandi e umidi.

«Chi cazzo sei?» tuonò Godwin.

Le labbra del tizio tremarono, ma non ne uscì alcun suono.

«Ti do tre secondi per levare il culo.»

Il tizio continuò a fissare quel gigante barbuto e impellicciato che gli stava davanti.

«Uno...» disse Godwin, e imbracciò l'ascia.

L'uomo schizzò all'in piedi come se gli avessero ficcato un dito nel culo, si incollò alla parete e prese a strisciare verso l'imbocco della grotta.

«Due...»

L'uomo schizzò accanto a Godwin, la testa bassa e le mani dietro la nuca, come se quell'atteggiamento bastasse a salvarlo nel caso di un colpo d'ascia. La cosa divertì Godwin, che lo guardò schizzare via come un coniglio. Raccolse i ciocchi, li sistemò in una catasta ordinata in un angolo e tornò fuori. All'imbocco del rifugio trovò il tizio. Sbirciava di fuori, guardando in tutte le direzioni.

«Sei ancora qui?»

Il tizio saltò e si voltò. «Per favore...» riuscì a dire.

«Levati dal cazzo», fece Godwin.

L'uomo mandò giù il rospo che aveva in gola e fece qualche passo indietro, uscendo dalla grotta e pestando la neve. Cominciò quindi a guardarsi alle spalle, sempre con maggior ansia. Tremava nonostante indossasse una pelliccia scura, che sembrava molto calda.

Acciaio, pallottole & demoniWhere stories live. Discover now