La notte mi avvolge e un vento fresco accarezza la pelle scoperta delle mie braccia. Pensandoci meglio, il clima non è poi così tanto mite. Sbuffo e mi accovaccio per terra, mettendomi a frugare all'interno del mio zainetto alla ricerca della giacca: me la poggio sulle spalle infreddolite e riprendo la mia camminata solitaria.

Le insegne al neon di un bar rischiarano la stradina, mentre una folla di gente si riversa al di fuori del locale. Ci passo davanti, sul lato opposto del marciapiede, non degnando di uno sguardo i clienti dall'aria poco rassicurante che affollano questo postaccio. Stringono bottiglie di vetro tra le dita e l'odore di fumo e alcol, assieme alle loro risate sguaiate, giunge sino alle mie narici. Quando mi notano, il loro occhio cade rapace su di me. Non mi sorprendo: sono una ragazza giovane, sola, con una valigia in mano in un quartiere sperduto. La preda ideale per questi depravati.

Il loro sghignazzare si fa più forte e subito dopo iniziano a rivolgersi a me con parole francesi che non conosco, ma che suonano volgari persino alle mie orecchie. Decido di non lasciarmi intimorire e di passare oltre ignorandoli, nella speranza di svoltare in una strada più illuminata e sicura di questa. Quando sono quasi allo svincolo però, uno di loro – un uomo di mezza età, calvo e leggermente robusto – attraversa la via diretto verso di me.

La sola vista di lui, che mi si avvicina con un ghigno malevolo, basta a far scattare le mie gambe. Corro veloce, una scarica di adrenalina mi pervade, mentre l'uomo mi rincorre urlandomi contro parole confuse. Il tizio si arresta dopo poco, troppo ubriaco per starmi dietro ma io, terrorizzata, non mi fermo: fuggo ancora per parecchi metri, addentrandomi in viuzze a me sconosciute. Quando sbocco su una strada trafficata, sfinita, mi concedo di riprendere fiato.

Mi poggio di spalle contro il muro di un palazzo e alzo gli occhi verso il cielo. La luna piena illumina la notte parigina, mentre le stelle sono quasi completamente assenti. Il sudore m'impela la fronte e la scia di vento fresco mi fa rabbrividire. Infreddolita, infilo le mani nelle tasche della giacca e le mie dita sfiorano la superficie di una carta ripiegata. 

Faccio roteare gli occhi da una punta all'altra della zona fino a quando non trovo ciò che cerco. Prendo un respiro profondo e mi dirigo un punto preciso: entro all'interno di una cabina telefonica, anonima e sporca al bivio della strada. Le mie dita premono incerte i tasti del telefono, digitando il numero scritto sul bigliettino che avevo in tasca. Appoggio la cornetta all'orecchio, mentre il cuore in martella in petto.

«Allô?» risponde una voce roca, dopo un tempo che mi appare infinito.

«Ehm...Puis-je parler à Léon?» domando incerta.

«Josephine?» lo sento esclamare, mentre tiro un respiro di sollievo.

«Si, sono io» rispondo, tamburellando le dita sul vetro della cabina.

«Certo che ce ne hai messo di tempo per telefonare» scherza lui, ma la mia voce rotta dalle lacrime lo interrompe: «Io non...so dove andare, un tizio mi ha inseguita...ho paura»

«Mio Dio, Josephine. Dimmi dove ti trovi»

Guardando oltre il vetro sudicio della cabina telefonica e gli comunico il nome della prima insegna stradale che leggo: «Rue Dalbury, credo»

«Ho capito, ti vengo a prendere» risponde risoluto. Riattacco la telefonata, mentre mi asciugo le lacrime con il dorso della mano.

Mi odio.

Mi odio per essermi ridotta così, mi odio per aver pianto davanti ad un estraneo, mi odio per il fatto di essere solamente una miserabile e che non mi basta un passaporto nuovo per colmare l'inettitudine che mi porto dentro.

OLIVIA Where stories live. Discover now