Capitolo VIII

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Fisso il televisore passivamente. Una vecchia signora della tivù sta spiegando ai telespettatori come cucinare del pollo alle mandorle. Il pigiama, le ciabatte, la mia postura scomposta e il calice di vino che ho in mano la dicono lunga circa il mio umore attuale. È tardi e fuori la pioggia battente è l'unico rumore che sento, oltre alle voci provenienti dal televisore. Prendo dal tavolino il mio sacchetto di patatine, decisa a fare schifo. È una settimana circa che me la passo così: per la precisione da quando sono fuggita a gambe levate dall'appartamento di quell'idiota di Connor Pence.

Mentre mastico voracemente una patatina mi abbandono per l'ennesima volta al ricordo di quella assurda giornata. Prima la sua vicinanza, poi il mio pronto cedimento alle sue attenzioni e, infine, l'amara verità: ero stata il passatempo di un ricco marito annoiato con la moglie in vacanza.

"Abigail" ha detto di chiamarsi. Mi ha squadrata da capo a piedi ma non ha chiesto alcuna spiegazione al marito. È abituata o voleva comportarsi da signora evitando plateali sceneggiate dinanzi a me? Non l'ho ancora capito.

Quando sono corsa a nel soggiorno per prendere il braccio mia sorella e precipitarmi fuori, Connor mi ha inseguita, ignorando la moglie immobile sul ciglio della porta. Ha anche cercato di fermarmi mentre raccoglievo la mia roba, ma è stato inutile. Non sono più interessata alle sue sciocche manfrine e pongo zero interesse nelle scuse che avrebbe potuto rifilarmi. Abigail non ha battuto ciglio. Si è limitata ad osservarmi sloggiare da casa loro. Niente urla, solo una punta di sarcasmo quando mi ha vista sfilare lungo il corridoio con in braccio mio sorella: «Vedo che ti sei fatto la famigliola felice in mia assenza» ha commentato, rivolta verso suo marito. Lui non l'ha minimamente considerata, piuttosto tentava di bloccarmi afferrandomi per un braccio. Che faccia tosta. Mi sono liberata dalla sua presa con la forza e sono fuggita via senza dire una parola. La mia reazione ha parlato per me.

Avendo assimilato bene l'accaduto, alla fine, sono pure contenta di essermela filata e di non aver più interagito con Pence. Stavo entrando nella ricca e annoiata vita di gente facoltosa che si sente in diritto di interferire in quella altrui solo per sfizio, per dare un senso a delle giornate vuote.

Eppure, mi era sembrato così sincero a cena: si era aperto con me. La mia mente cede sempre su questo punto, quando arriva a questa fase del ragionamento. M'inceppo e cerco attenuanti ma poi penso al fatto che sarà stata sicuramente una di quelle tecniche che i viscidi come lui usano per rimorchiare.

Puntano tutto sul loro passato doloroso, ammesso che ne abbiano mai avuto uno. Il mio è stato un vissuto doloroso e mi detesto per avergli rivelato così tanto di me.

Mi concentro sul ticchettio dell'orologio e guardo l'orario: le 19.30. Sbuffo e mi rigiro nella coperta. Un'altra giornata conclusasi nell'ozio più totale, un'altra settimana orribile.

A lavoro ho fatto tutto il possibile per evitarlo, sono uscita fuori per svolgere delle commissioni ogni volta che potevo. Michael mi ha detto che mi ha cercata più volte nel mio ufficio. Non mi sono mai fatta trovare. Cosa spera di ottenere? Pensa davvero che io sia così sprovveduta? Li conosco bene gli uomini e quelli come lui non mi sono mai piaciuti.

Vago con la mente al ricordo dell'espressione dispiaciuta di Micheal quando gli ho raccontato dell'accaduto: «Tesoro, prima di uscire con ragazzo devi sempre chiedere consiglio a me. Il signor Pence poi! Lo sanno anche le piastrelle dell'ufficio che è sposato con una ricca ereditiera di Miami!»

Ogni giorno che passa mi sento sempre più stupida, ingenua, imbarazzante. Accartoccio il sacchetto, ormai vuoto, di patatine e lo butto sul tavolino ricoperto di briciole. Riempio un altro calice di vino bianco e lo sorseggio, mentre ripenso con livore al viso di Connor Pence.

È il campanello a distrarmi dai miei pensieri. Mi stiracchio sul divano e poi vado ad aprire la porta. 'Chi diavolo è?' impreco nella mia mente. Spalanco la porta e mi ritrovo davanti Iago. Non riesco a trattenermi dall'accoglierlo con uno sbuffo e con gli occhi che ruotano verso l'alto: «Iago, ti avverto: non è giornata»

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