Capitolo X

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«Dov'è la seconda uscita?» urla Connor. Ha dovuto alzare la voce perché il frastuono proveniente da fuori è troppo forte. Sono ancora seduta di spalle contro lo stipite del comò e lo guardo spaesata: «La seconda uscita?»

«Diamine, Olivia! La seconda uscita! Tutte le sale private di questo posto ne hanno una!»

«Non lo so...»

Connor sospira spazientito, si guarda intorno alla ricerca di qualcosa, esplora la stanza assottigliando gli occhi. Dopo poco esclama indicandomi una grata di ferro situata in basso, in fondo alla stanza: «Eccola! Dobbiamo passare da lì»

«Ma come fai ad esserne sicuro?»

«L'alternativa è farci trovare qui dalla polizia o di beccarci una pallottola vagante, valuta tu» ribatte acidamente.

«E sia, dannazione!» impreco.

Lo aiuto a rimuovere la grata e, una volta smontata, ciò che si presenta davanti a noi è un orribile tunnel, sul cui fondo s'intravede una luce fioca: l'uscita.

«Andiamo» mi esorta lui, vedendomi titubare dinanzi all'idea di infilarmi lì dentro.

Lo spazio è stretto e mi dà un senso di claustrofobia, tant'è che stringo i denti mentre avanziamo strisciando lungo il passaggio sotterraneo. Connor è il primo a sgattaiolare fuori. L'uscita ci ha condotti sul retro del locale, in una stradina secondaria di periferia poco frequentata.

«Dobbiamo correre via di qui!» mi dice aiutandomi ad uscire fuori dall'angusto passaggio.

«Dammi un minuto» imploro.

Per la seconda volta da quando lo conosco mi libero dei miei tacchi per prepararmi alla fuga.

«Vedo che è un'abitudine» trova il tempo di scherzare lui, mentre mi dà una mano a togliermi l'altra scarpa.

«Sta' zitto» sbuffo.

«Saranno qui a momenti, corri più in fretta che puoi» mi ordina lui, porgendomi una mano per rialzarmi da terra.

Con la sua mano nella mia, vengo trascinata fuori dalla desolata viuzza, in una corsa senza freni. L'adrenalina ha preso possesso di ogni parte di me, sento le mie gambe scattare veloci sulla strada ignorando persino il dolore dell'asfalto che graffia i miei piedi nudi. Dietro di noi è il caos più totale: il suono stridulo delle sirene della polizia taglia l'aria, intervallato da colpi di pistola che piovono a raffica. Ad un tratto, un rumore fortissimo: del fumo avvolge il locale. Sta bruciando. Sembra la scena di un film d'azione.

La cosa che mi lascia sconvolta è la totale indifferenza del vicinato: nessuno si affaccia ai balconi, nessuno pare chiedersi cosa stia succedendo. Ed è in questo momento che mi è chiaro come mai questo quartiere periferico è la sede ideale  per i  traffici illeciti di Iago Moles.

Non so quantificare per quanto tempo ho corso, so solo che ad un tratto le mie gambe - inesorabilmente - cedono. Mi ritrovo per terra in ginocchio, con il palmo della mano che arresta il mio schianto al suolo e con il braccio di Connor che tenta vanamente di sorreggermi. Mi rimetto in piedi, scrollandomi il pietrisco di dosso: «Sto bene»

Siamo usciti fuori dal quartiere e che i fatiscenti edifici  popolari sono stati sostituiti dalle ordinate villette a schiera di una zona residenziale periferica che mi è vagamente familiare.

«Non puoi fermarti adesso, Olivia, siamo quasi arrivati» tenta di motivarmi il mio compagno di fuga.

«Dove?» domando con il fiato corto, poggiandomi a lui. Le mie gambe non ce la fanno più. Sono al limite.

«A Villa Pence, da mio padre»

«Che cosa?» strabuzzo gli occhi in una eccessiva reazione di stupore.

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