Capitolo XIX

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Non mi sono mai soffermata a pensare alla vita che avrei voluto, dal momento che ho passato gli ultimi anni a cercare di sopravvivere a quella che mi era toccata. Mia madre, Stephanie Bolws, il fardello più pesante della mia relativamente breve esistenza, colei che mi ha messo al mondo e colei che del mondo si è sempre disinteressata, è morta.

Mia madre non era mai presente alle recite scolastiche. Mi mettevo in disparte ad osservare i miei compagni di classe che correvano ad abbracciare i loro genitori, i quali venivano a prenderli da scuola, trafelati ma felici. Scappavano da lavoro e a volte qualcuno di loro portava con sé un peluche, il giocattolo preferito del figlio, quello che magari aveva perso la sera prima e senza il quale non riusciva ad addormentarsi.

Fissavo la porta di quell'aula chiassosa e desideravo con tutta me stessa che, da un momento all'altro, spuntasse fuori la testolina arruffata di mia madre. Aspettavo invano ogni giorno che fosse lei a venire a prendermi dopo scuola e non quella vecchia zitella della Signora Frack, la nostra apatica vicina.

Fantasticavo sul passeggiare insieme tra le strade di East Point e ci immaginavo fermaci in una di quelle gelaterie dalle mura color pastello, a prendere un gelato artigianale al pistacchio. Il migliore del quartiere, dicevano.

Le sue braccia ossute ma inaspettatamente vigorose, quando era nel pieno delle sue facoltà mentali e non in uno dei suoi profondi periodi di depressione, mi spingevano il petto contro il lavabo del bagno di prima mattina e con le sue mani gracili mi lavava sgraziatamente il viso. Non mi lamentavo, perché era quello il suo modo di prendersi cura di me.

Crescendo ho iniziato a pensare sempre meno alle cose che avrebbe potuto e dovuto darmi e mi sono concentrata su ciò che potevo fare per me. L'ultima volta che mi sono illusa di vederla cambiare è stato con la nascita di Claire, mia sorella, la sua secondogenita. Non è stato altro che un flebile miraggio, una breve parentesi di felicità susseguita da un buio ancora più pesto. Pensavo fosse l'alba di un nuovo inizio, ma era soltanto il crepuscolo: se grazie a Claire la mia vita aveva di nuovo acquistato senso, la sua si era svuotata di ogni significato.

Un degenerare repentino, caratterizzato da ore intere in cui spariva e nottate passate ad asciugare vomito dal pavimento mentre la guardavo liberarsi pure dell'anima di faccia nel buco del cesso.

Ma adesso comprendo e m'immedesimo nel suo desiderio di fuga dalla realtà e dalle responsabilità che la vita ti cuce addosso senza permesso. Vorrei bucarmi le vene con della morfina per sentire questo dolore in ogni fibra del corpo, ma senza soffrire. Star male e non provare dolore: evidentemente, quello che ha cercato lei nella droga. Spegnere il dolore, senza dimenticarsi di esso. Perché sì, non era solamente una ludopatica, era anche una tossicodipendente e solo adesso i pezzi ricompongo il mio quadro degli orrori,  rivelandomi il senso delle ore vuote, della depressione, dei soldi che non bastavano mai, degli ingenti debiti e di Iago.

Non la biasimo, è così che ci si sente quando vivi in funzione di qualcosa ma questa smette all'improvviso di avere senso. Mi sento esattamente così: ho fatto di tutto per salvarla, ma lei è morta e io sono qui con niente in mano ed una condanna che pende sulla mia testa come un'ascia, costretta a sparare proiettili ad una sagoma di legno.

«È morta a seguito di una overdose d'eroina. È stata trovata all'alba da un netturbino in un vicolo cieco di New Orleans, con un ago nel braccio»

La mia mente rievoca il riassunto breve e coinciso di Connor: «Linnet Rogerway l'ha fatta cercare dai suoi scagnozzi. La nostra spia ci ha riferito che non hanno dovuto faticare molto, le hanno dato una quantità spropositata di eroina e...ci ha pensato lei, era in crisi d'astinenza da due giorni. Per quanto poco possa importarti, sono profondamente dispiaciuto. Non sapevo fosse un'eroinomane, nè che volessero farle del male»

OLIVIA Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora