«Perché ti fai chiamare Connor Pence, allora?»

Perché non è chi dice di essere.

Si alza dalla sedia e fa un giro attorno alla scrivania. Armeggia con un cassetto chiuso a chiave per poi poggiare sul tavolo quello che sembra essere un passaporto.

Lo guardo sospettosa: «Come faccio ad essere sicura del fatto che tu non stia mentendo anche adesso?»

Lui scrolla le spalle: «Ti tocca fidarti»

Ovviamente non mi fido. Mi mi rigiro tra le mani il libretto, studiandone la copertina verde scuro. Con un polpastrello passo i contorni del logo dorato al centro del passaporto, tastandolo minuziosamente per capire se sia o meno contraffatto. Connor mi guarda sottecchi, scrutando attentamente ogni mia espressione. Ad un primo esame, il passaporto sembra autentico.

«Hai sprecato il tuo tempo» mi dice, quando dopo averlo aperto e letto quelli che dovrebbero essere i suoi veri dati anagrafici, glielo riconsegno in mano.

La sua ultima affermazione mi rende perplessa: «Perché?»

«Perché di passaporti originali ne posso avere quanti ne voglio» risponde beffardo, mentre richiude a chiave il cassetto.

«Connor Pence esiste, è vivo e vegeto e abita a Londra» dice dopo un po'.

«E tu chi sei? Perché ti spacci per lui?»

«È una lunga storia»

«Raccontamela o ti denuncio, non m'importa delle conseguenze, di andare in galera. Non ho niente da perdere a questo punto» lo minaccio, ma non risulto abbassata credibile. Connor scoppia in una fragorosa risata che mi confonde ulteriormente.

«Olivia, non sai cosa stai dicendo. Sei così ingenua! Non pensavo rimanessi così pura, con quello che fai nel tempo libero. So così poco di te...»

Aggrotto la fronte, nervosa: «Per quanto mi riguarda, sai fin troppo di me»

«Non è vero. C'è qualcosa che ancora mi sfugge» dice in un sussurro avvicinandosi a me: «Facciamo un gioco: io rispondo alle tue domande e tu e alle mie, ci stai?»

Porta due dita sotto al mio mento e lo alza, costringendomi a guardarlo negli occhi. Scuoto leggermente la testa in segno di consenso: «A patto che sia la pura verità»

«Promesso» acconsente.

«Allora chi sei?»

Nessuno di noi due è tenuto a dare spiegazioni all' altro, ma la curiosità reciproca ci costringe ad accettare questo compromesso. Siamo un'enigma l'uno per l'altro.

Si stacca da me, mettendosi di spalle davanti alla scrivania e inizia a narrare la sua verità: «Sono nato a New York ventisette anni fa ed è lì che vivo tutt'ora. Sono figlio di un poliziotto e sebbene io ti abbia mentito su molte cose, ero sincero quando ti ho detto di mia madre. È morta per via di una grave malattia quando ero molto piccolo, non ricordo molto di lei e non ho avuto una vita facile, mio padre mi ha tirato sù da solo e non era quasi mai a casa. Sono cresciuto per strada, nel Queens. Fidati quando ti dico che tutto questo mondo patinato non mi appartiene»

«E come fai a trovarti in qui?» insisto, desiderosa di capire.

«Quando avevo diciotto anni mio padre è stato ammazzato mentre era in servizio: si occupava di una storia di traffico di droga nel Bronx. Avevo appena iniziato il college e aperto un finanziamento per permettermi di mantenermi durante l'università, ma con la morte di mio padre le cose si sono fatte sempre più difficili»

«Già» lo interrompo brevemente ma Connor riprende il suo racconto: «Non avevo più nessuno e sono stato costretto ad abbandonare il college. Un pomeriggio, mentre ero a casa, quelli della Central Intelligence Agency...»

OLIVIA Where stories live. Discover now