«Lì dentro staremo al sicuro» mi dice, poggiandomi una mano sulla spalla: «Va tutto bene, sei solamente sconvolta»

L'ansia mi assale, sono dinanzi ad un bivio: tornare sul luogo del delitto o venire acchiappata dalla polizia? Suscitare l'ira di Iago o finire in gattabuia con Connor a causa di una bisca clandestina? La testa mi gira, sopraffatta dagli eventi di quella serata, e tutto vortica attorno a me. Cerco disperatamente una soluzione, ma questa non arriva. È il buio a farlo. Sento le gambe cedere nuovamente e il mio corpo accasciarsi al suolo, assieme alla voce della mia coscienza che viene finalmente messa a tacere.

Quando apro gli occhi, un soffitto affrescato è la prima cosa che entra nel mio campo visivo. Mi rigiro tra delle lenzuola bianche, impregnate di un profumo a me del tutto estraneo. Prima che io possa mettermi a sedere e capire esattamente dove mi trovo, una fitta di dolore alle gambe mi blocca e mi fa strizzare le palpebre dal dolore.

«Ce ne hai messo di tempo» sento dirmi da una voce familiare.

Connor è seduto su una sedia di fianco al mio letto. Anche lui non sembra essere messo bene: ha la camicia semi sbottonata, la cravatta slacciata e i capelli, in disordine, che gli ricadono sulla fronte. Sta seduto in una posa scomposta, con le gambe accavallate. Dev'essere esausto anche lui.

Fuori è ancora buio. «D-dove sono? Che è successo?» chiedo voltandomi nel sua direzione, ma anche questo lieve movimento del busto mi provoca stilettate di dolore.

«Te l'ho detto: siamo a Villa Pence. Era il posto più vicino»

L'attacco di panico che ho avuto ha reso i miei ricordi più recenti sfocati e Connor inizia a narrarmi cosa è successo. «Starai meglio domani mattina. Il dolore è dovuto all'acido lattico. Abbiamo corso troppo, e appena è svanito l'effetto dell'adrenalina hai iniziato a sentire dolore e hai perso i sensi. Per fortuna, non eravamo lontani dato che ti ho dovuta portare in braccio fin qui»

«In braccio?»

«Sì, in braccio. Avrei dovuto lasciarti lì?»

«N-no. Mi dispiace. Anzi, ti ringrazio per avermi soccorsa» rispondo in tono di scuse.

Non so più che pensare. Mi osservo attentamente e noto i palmi delle mani graffiati e il mio corpo ricoperto solamente da una vestaglia bianca di seta. La fisso per qualche secondo e poi azzardo timidamente, indicandomi «Io...non avevo un vestito?»

Lui mi guarda spaesato, poi, appena realizza dove voglio andare a parare si affretta a spiegarmi: «Oh, no. Ti ha vestita Paloma, la cameriera. Questa dev'essere una vecchia vestaglia di Linnet»

«Ehm, ecco, io non volevo insinuare nulla. Mi chiedevo solamente che fine avesse fatto il mio vestito e da quanto tempo sto così» cerco di rassicurarlo, salvandoci entrambi da questo momento di imbarazzo.

«Il tuo vestito si è strappato, Paloma te lo ha conservato lo stesso ma...»

D'istinto, mi copro meglio con un lenzuolo. Ricapitolando: non ho più né le scarpe, né il mio vestito.

«Incredibile, sono rimasta senza neanche uno straccio addosso» rispondo allibita, rivolta più a me stessa che a lui.

«Ti posso far avere tutto ciò che ti serve, ma ora riposati»

«Che ore sono? Non posso stare qui!» esclamo.

«Hai dormito si e no un paio d'ore. È quasi l'alba»

«Ma non posso stare qui!» ribadisco testarda. Scosto le lenzuola per alzarmi, ma il dolore mi blocca sul posto.

Connor mi spinge delicatamente indietro sul letto, riportandomi in posizione supina. Prende un' asprina poggiata sopra il comodino alla mia destra e la fa sciogliere in un bicchiere d'acqua, poi con un tono che non ammette repliche mi ordina «Prendi questa e riposa, vedrai che tra qualche ora starai meglio e potrai tornare a casa»

OLIVIA Where stories live. Discover now