Prendo la zuccheriera e la poso sul vassoio insieme alle due tazze di caffè. Appoggio tutto sul bancone e spingo il vassoio verso di lui, invitandolo a servirsi: «Le ho già detto che mi dispiace, non so cos'altro...»

«Non mi dilungherò: so che si sta chiedendo cosa io voglia da lei...» mi legge nel pensiero Pence, mentre zucchera il suo caffè. Lo beve in un sorso e continua a parlare, placido: «Credo di doverle proprio offrile uno stage da noi in azienda»

Lo guardo stizzita: «Crede di dovermi offrire uno stage?»

Connor Pence allarga le braccia sconsolato, come se avessi mosso una obiezione sulla cosa più logica di questo mondo: «Non ci prendiamo in giro: si scrive stage ma si legge mi serve una fotocopista tuttofare...»

«Ah. Vedo che non si fa problemi a dire le cose come stanno»

«Non si offenda. Se non ricordo male ha detto che era disposta ad accettare un lavoro qualunque perchè era... come ha detto? Ah, sì: disperata. Sono stato anche abbastanza magnanimo con lei dato il suo disastroso colloquio»

«Lei non è magnanimo signore, è semplicemente più disperato di me» sbotto arrabbiata.

La tentazione di cacciarlo di casa è forte. Mi punta gli occhi castani addosso e serra la mascella scolpita, con l'aria di chi non ha intenzione di accettare un no come risposta. Tuttavia, la mia risposta sfacciata l'ha messo a disagio.

Mi godo il mio momento di gloria e decido di rincarare la dose: «Io sarò anche disposta a tutto ma vedo che anche lei non è messo meglio. Per questo: se vuole davvero che accetti, sia meno arrogante. Non se lo può permettere»

Pence si passa una mano trai capelli castano scuro e poggia entrambi i gomiti sul tavolo: «Quello che intendevo – cerca di correggersi – è che le sto offrendo, in maniera coerente a ciò di cui abbiamo discusso durante il suo colloquio, un posto adatto al suo percorso di studi. Le frutterà crediti universitari e una buona paga. È con questo che intendevo di essere stato magnanimo»

Spalanco la bocca per controbattere, ma lui continua ignorandomi: «Dato che tutto ciò che le sto offrendo non ha fatto granché per meritarselo. Ha avuto solo la sfacciata fortuna di rovesciare il thè sopra i curricula degli altri candidati»

«Ho fatto astutamente fuori la concorrenza. Questa sì che è un'abilità da inserire nel curriculum» rispondo sarcastica.

«Astutamente? Ma se non lo ha fatto di proposito!» ribatte il signor Pence.

«Chi dice che non l'ho fatto di proposito?» rispondo beffarda, con un sorrisetto stampato sul viso.

Per una attimo sembra crederci, ma gli basta squadrarmi intensamente per qualche istante per ritornare su i suoi passi: «Ma a chi vuole darla a bere?»

Forse in pantofole non sono tanto credibile.

Ha ragione lui: a chi voglio darla a bere? Ero talmente terrorizzata che mi sono tolta le scarpe per scappare il più velocemente possibile e ora mi metto a dire che in realtà l'ho fatto per eliminare astutamente la concorrenza: è incredibile la mia tendenza all' auto-sabotaggio anche quando la vita decide di darmi una seconda possibilità.

«Ci devo pensare sù» rispondo, orgogliosa fino al midollo.

«Signorina Bowls, forse siamo partiti con il piede sbagliato ma la prego, sia ragionevole»

«Solo se lei smettesse di essere così presuntuoso anche mentre sta chiedendo aiuto!» sbotto e nello stesso istante mi sembra di vedere i neuroni di Connor Pence elaborare pensieri del tipo: "come mi sono ridotto?".

Il ragazzo si piega in avanti, senza aggiungere una parola, e raccoglie la valigetta di pelle che aveva poggiato ai piedi del bancone. Gli occhi mi cadono sui tacchi che ha posato di fianco alla sua ventiquattr'ore.

Però...me li ha riportati.

Connor apre la valigetta e sfila fuori un fascio di fogli elegantemente rilegati e riportanti il logo della H.P. Editorials in bella mostra sulla prima pagina: «Il contratto» mi dice indicandomeli poggiandoli sul bancone.

Siamo l'uno di fronte all'altro, entrambi seduti sulle alte sedie di legno della mia cucina e con il contratto posto tra di noi. Lo prendo e gli dò una rapida occhiata: ciò che mi balza subito agli occhi è la generosa paga mensile che risolverebbe gran parte dei miei problemi, ma non tutti.

Sollevo il mento da foglio e lo guardo con aria di sfida: è il momento di scendere a patti, quest'uomo così arrogante non se la caverà facilmente: «Potrei accettare – esordisco dopo qualche attimo di silenzio – ma deve aggiungere una clausola».

Pence mi guarda con aria interrogativa, aggrottando le sopracciglia: «Sentiamo» replica scocciato.

«Oltre alla paga mensile, la sua azienda dovrà pagarmi anche le rette universitarie»

«Che cosa? Non se ne parla. Questo è troppo!»

È basito, infastidito, furibondo. So che mi sta detestando. Ma il sentimento è reciproco e non mi tange.

«Beh, allora vorrà dire che accetterò quel posto come barista al Mozheart...» dico scollando le spalle e fingendo disinteresse.

«E va bene, va bene. Ha vinto lei!»

Ha ceduto. Esulto internamente, vorrei urlare, ma mi fingo calma. Sogno il momento in cui Connor varcherà finalmente l'uscio di casa mia per darmi alla pazza gioia. Ha l'aria sconfitta e rassegnata. Si alza dalla sedia e riprende tutte le sue cose. Dopo di che, gli faccio strada lungo il corridoio. Quando giungiamo sulla porta, nel soggiorno, lo scopro lanciare nuovamente un'occhiata curiosa a Claire, la quale sta ancora dormendo.

«Ci vediamo domani in ufficio. La mia assistente le farà firmare la versione corretta del contratto» mi dice.

«Perfetto... un'ultima cosa»

Connor, dall'alto della sua imponente statura, mi guarda seccato: «Vuole aggiungere un'altra clausola?»

«Come ha fatto a trovarmi?» gli chiedo, ignorando completamente la sua battuta acida.

«Sul curriculum...c'era anche il suo indirizzo di casa»

«Giusto»

Pence ha la mano poggiata sul pomello della porta, ma stranamente indugia sul ciglio pensieroso: «Vedrà...è la scelta migliore per lei e per sua figlia»

«Sicuramente. Comunque, non è mia figlia» puntualizzo. Anche se sono affari suoi, ci tengo a mettere le cose in chiaro: «È mia sorella. Mia madre l'ha avuta tre anni fa. Ha solo me » spiego, mentre entrambi ci giriamo nella sua direzione. La fissiamo per qualche secondo senza fiatare.

«Anch'io – sussurra, mentre un lampo di comprensione gli attraversa lo sguardo – sono cresciuto senza mia madre, so cosa... si prova»

Gli occhi gli diventano tristi e sembrano, per una frazione di secondo, perdersi vacui tra le mura del mio soggiorno. Lo scudo di arroganza che si mette addosso gli scricchiola leggermente, mostrando un' autentica parte di lui.

«Grazie per avermi dato questa opportunità» mi sfugge, in uno slancio di sincerità e gratitudine.

«Come mi ha garbatamente ricordato lei prima sono un uomo disperato» risponde, ma questa volta lo fa con un tono scherzoso.

«E grazie anche per...ehm...le scarpe» aggiungo imbarazzata, mentre lui apre la porta di casa per uscire.

«Dovere. Ci vediamo in ufficio, signorina Bowls» si congeda e con queste parole varca l'uscio, salutandomi con un cenno del capo.

Dalla finestra lo vedo attraversare il vialetto di casa e salire su un'elegante auto scura. Finalmente posso urlare di gioia! Ho un lavoro, posso continuare l'università in pace e la persona più importante della mia vita è qui con me, al sicuro.

Mi butto sul divano, esausta e psicologicamente provata da questa lunghissima giornata. Mi abbandono ai pensieri con la mente che vaga felice. Passa poco tempo e il display del telefono, poggiato sul tavolino, si illumina. Il nome che compare mi mozza il respiro: IAGO — CHIAMATA IN ARRIVO. Può andare peggio di così?

OLIVIA Where stories live. Discover now