Destino

By _Light_Dark_

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[Completa] Damien è un ragazzo introverso e complicato. Ama la propria routine trovandola, nel contempo, bana... More

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<19> Daniel.
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24. <Amelia>
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<33> Daniel.
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<35> Nathan.
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<37> Jason.
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<Ringraziamenti>
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<44> Daniel.
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<47> Daniel.
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<51> Amelia.
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<53> Jessica.
54. <Frederick.>
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<58> Daniel.
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<62> Daniel.
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<65> Tempo fa.
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<71> Daniel.
<72> Daniel.
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<76> Isaac.
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-Joseph- Tempo fa.
<80> Daniel.
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<82> Daniel.
<83> Daniel.
<84> Freddie- Tempo fa.
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<86> Isaac.
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-90- A metà.
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<92> Jason.
<93> Daniel.
<94> Frederick.
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<97> Amelia.
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<99> Nathan.
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<107> Nathan.
<108> Daniel.
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<112> Epilogo.
Ringraziamenti.
<Extra> Jason.
<Extra> Damien.
<Extra> Daniel.
<Extra> Damien.
<Extra> - Natale - Tempo fa.
<Extra> -14 Febbraio- Tempo fa.
<Extra> -31 ottobre- Tempo fa.
Spinoff/Prequel
Challenge
Tredici curiosità su di me.

<30> Tempo fa.

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By _Light_Dark_

Da quanto sono sveglio? Forse un paio d'ore nemmeno, eppure mi sembra di non essermi mai messo a dormire, le palpebre spalancate e nessuna traccia di uno sbadiglio in lontananza.
L'alba è sorta da tempo, eppure il solito gallo, intento a cantare ogni nota esistente nel suo repertorio, si sente ancora.
Mi sono sempre chiesto perché nei cartoni animati facessero svegliare l'animale sempre alla stessa ora per tirare su il malcapitato di turno, quando nella realtà non è affatto così e non tutti gli esemplari sono uguali. Infatti, credo di aver letto una notizia sul loro orologio biologico e sulla possibilità di cantare anche dopo un certo orario, tuttavia non ne sono sicuro e non andrò a cercare di nuovo la notizia.

Sospiro sconsolato e mi alzo, scostando di lato le coperte. Sebbene sia ancora autunno, il freddo ha deciso di anticipare il suo arrivo, e mi ritrovo a rabbrividire una volta posati i piedi nudi a terra.
Spazio gli occhi sulla stanza, incapace di soffermarmi su nulla in particolare. Fuggo via da ogni dettaglio, rifiuto di concentrarmi e dare pace alla mia attenzione traballante.
Sento il vuoto nel petto, questo sì che attira il mio interesse, ma non è più una novità eclatante: è così da qualche anno, ormai, e il niente è entrato a far parte dei miei giorni, l'amico peggiore mai avuto.
Chiudo le palpebre, le strizzo forte e scaccio via i brutti pensieri dalla mente, proprio come mi costringo a fare da quando mio padre è morto.
Sarò in grado di andare avanti, oggi? Salterò la fase della tristezza e aprirò un barlume di colore nella coltre grigia delle mie giornate?
Sussulto impreparato nel sentire un bussare pesante contro la porta della stanza.

«Damien, è ora di alzarsi! La scuola non aspetta nessuno.»

La voce di Jason squilla forte e percepisco una nota di fretta nel suo tono, forse un tentativo di trasmetterla anche a me, senza successo.
Riapro gli occhi e resto per qualche istante fermo, svuotato e appassito.
La scuola.
Non vorrei proprio andare.
A cosa serve? Al suo interno ci sono solo sconosciuti sempre pronti a salutare il prossimo, a sbattermi in faccia la loro stupida felicità unita a sorrisi ai quali, però, non ho neppure voglia di rispondere.
Io, non sono più come tutti, e provo invidia nei confronti di chi non ha mai passato niente di disastroso, di chi continua ad andare avanti nonostante il mio lutto eterno.
Le lezioni, poi, sono noiose e inutili, e non mi porteranno da nessuna parte.
Se potessi restare qui sdraiato sarebbe perfetto, il bozzolo di calda commiserazione attorno alla mia anima sfigurata. Sospiro lento e sconfiggo il mio carattere ostinato, mandando segnali eloquenti al corpo fino ad alzarmi con uno sbuffo.

Esco nel corridoio, mi dirigo verso il bagno ed eccolo lì, lo specchio colpevole di vendere ai miei occhi il riflesso di ogni mattina: ho lo sguardo assonnato, i capelli arruffati e le occhiaie pronunciate.
Passo un dito sulla curva storta del naso, sfioro la punta e arrivo alle labbra, dove alle estremità infilo i polpastrelli e le muovo verso l'alto. Quando le lascio, tornano inevitabilmente in basso a produrre una curva perfetta.

Sono la copia distorta di me stesso.
Cosa mi impedisce di attardarmi sul ciglio di un cavalcavia, uno molto alto e magari solitario, e spingermi al di là di una barricata tremolante?
Andrebbe bene anche un balcone rialzato, un qualunque strapiombo, qualcosa di definitivo a cui supplicare la parola: fine.
Ascolto la voce di mio fratello chiamare il mio nome per l'ennesima volta e l'immagine allettante vola via, sostituita dalla tiepida verità di non avere abbastanza coraggio per commettere un simile atto.
Lavo il viso, trattengo il respiro per una manciata di secondi e lo rilascio lento, le goccioline schizzano il vetro, però non le pulisco e le lascio colare verso il basso.

«Puoi farcela, Damien. Sei un ragazzo che ha ancora una lunga vita davanti a sé.»

Ripeto ad alta voce le parole del mio psicologo, anche se, in questo momento, non suonano per nulla confortanti.
Tornato nella stanza indosso un paio di jeans neri stretti, un maglione di lana color avorio sopra a una maglia lunga e una sciarpa pesanti a quadri.
Sarò esagerato, ma non ho voglia di prendere un malanno.

«Finalmente sei arrivato» esclama Jason mentre traffica con la macchinetta del caffè.

Dopo un periodo burrascoso trascorso tra la mia infanzia e la sua adolescenza, ho finalmente imparato ad apprezzare mio fratello, o almeno a sopportarlo.
Adesso lo trovo persino un tipo gradevole, forse l'unico con cui, in qualche modo, riesco a scambiare due parole.
Solleva l'attenzione su di me e qualcosa dentro il mio petto si incrina, proprio come al solito.
Lui somiglia dannatamente a mio padre, un ricordo doloroso e sempre presente.
Prendo coraggio e gli sorrido mentre mi porge un sacchetto di carta.

«La tua colazione...», ci riflette qualche secondo, lo vedo persino muovere le dita in aria e mormorare qualcosa, «... Non penso di aver dimenticato nulla» conclude, e la sua smorfia mette in risalto gli zigomi alti.

Di colpo, come per magia, all'immagine di mio fratello si sovrappone quella di mio padre. Eravamo abituati a fare colazione tutti assieme, e sembrava sempre una grande festa, una da non riuscire a dimenticare.
Poso lo sguardo sul tavolo di legno e rammento i vassoi colmi di biscotti preparati dalla mamma, le tazze di cioccolato fumante lì accanto, con quell'aroma di cannella e cacao.
I ricordi, però, si dissolvono e resta solo il freddo materiale bianco, nessuna risata a riempire quel vuoto opprimente.

«Dami?»

Al suono della chiamata mi risveglio e riporto gli occhi su Jason.
Non posso piangere, non di nuovo.

«Vado a scuola. Grazie per la tua premura» dico in fretta, afferro il sacchetto, fingo un sorriso di ringraziamento e trascino le gambe verso il pianerottolo.
Mi aggrappo al corrimano di ferro e prendo un paio di respiri profondi, lo sguardo fisso verso il basso, proprio in direzione della moltitudine di gradini.

Va bene, Damien, ce la puoi fare.

Piego le labbra in un sorriso amaro. Chi cerchi di convincere?
Lo sai che stai mentendo a te stesso.
Scendo a fatica e avverto la bruciante sensazione ai lati degli occhi, il magone in fondo alla gola.
Lo butto giù e sospiro.
Ho pianto abbastanza, non ho bisogno di farlo ancora, perché tanto non porta a nulla se non a sentirsi peggio.

Nemmeno mi accorgo di chi in strada mi passa accanto: vanno tutti di fretta, mentre io cammino calmo.
I bordi del marciapiede sono sfocati dalle lacrime che hanno inevitabilmente velato il mio sguardo.
Come mai non riesco mai a resistere? I miei rubinetti sono sempre aperti e, a quanto pare, c'è acqua salata infinita.
A pochi passi dalla scuola non resisto e mi rannicchio in un angolo tra un lampione e una cabina telefonica.

Non voglio andare.
Non sono in grado di sopportare gli sguardi felici dei compagni di classe o le risate colme di gioia, perché mi fa male sopravvivere in mezzo a loro come un fantasma.
Ho bisogno di chiudere gli occhi e di staccare la spina.
Mi asciugo le guance con le mani, ma capisco che quel semplice gesto non sarà mai in grado di placare la mia disperazione.

Dio, ti prego, voglio stare meglio.

Una cartaccia mossa dal vento colpisce la mia scarpa e si incastra tra i lacci verde chiaro.
Dei passi si avvicinano a me, pestano il cemento con una leggerezza invidiabile.

«Scusa, ho aperto una caramella e la carta ha deciso di farsi un viaggio.»
È una voce maschile, leggermente infantile e allegra.

«Non fa niente» borbotto piano senza tuttavia alzare il volto.

Non voglio mostrarmi a qualcuno in questo stato, sembrerei un totale disperato, anche se la mia immagine non deve comunicare qualcosa di poi così differente.
Dopotutto, chi altri si metterebbe in un angolo della strada a piangersi addosso?
Uno che ha perso tutto, o quasi.

Vedo la sua mano chinarsi ad afferrare l'incarto, togliendolo dai miei lacci.

«Vuoi una gomma?» domanda affiancandosi, posso vedere le sue scarpe da ginnastica logore fermarsi a pochi passi.

Ho già sentito questa voce?
Forse si tratta di un mio compagno di scuola, eppure non ne sono certo.
Scuoto la testa e tiro su con il naso, il silenzio come mia unica arma di difesa.
Di sottecchi lo osservo temporeggiare: sposta il peso da una gamba all'altra.
Quando capirà che non desidero parlare con nessuno, ma ho bisogno di restare da solo con il mio dolore?
Con un colpo al cuore lo vedo rannicchiarsi alla mia destra, schiacciandosi contro il palo, pur di riuscire a sedersi.
Se possibile, affondo ancora di più nella sciarpa per nascondere al suo interno buona parte del volto.

Cosa vuole questo qui?
È troppo invadente per i miei gusti.
Devo alzarmi e allontanarmi, prima che sia troppo tardi, e sarà meglio cogliere l'occasione giusta. Con la coda dell'occhio sfioro i tratti del suo viso, eppure non mi sta guardando, anzi, preferisce scrutare la strada, annuendo impercettibilmente tra sé e sé.

Cavolo, ora che lo guardo bene è un ragazzo della mia classe. Non ricordo il suo nome, però il taglio di capelli lunghi, gli occhi chiari e le lentiggini lo riportano alla mia mente.
Inclina le labbra in una smorfia incomprensibile.
«Ti sei trovato proprio un bel posticino. Niente male» si complimenta scoccandomi un sorriso, e così facendo mi accorgo di un livido violaceo che gli prende il contorno della guancia espandendosi attorno all'occhio, mettendo in risalto l'iride verde.

Va bene, Damien, è arrivato il momento di allontanarsi.
Sarai pur capace di congedarti con cortesia, no?

«Sono Daniel» dice battendomi sul tempo e tende la mano tremante verso di me.
Avrà freddo? Be', sicuramente, dato che indossa solo un maglione e una sciarpa sottile di un tessuto apparentemente leggero.
Ingoio la saliva.
Da quanto non parlo con uno sconosciuto? Di solito me ne resto a bordo campo e, se necessario, scambio parole con gli insegnanti giusto per mantenere la media e non essere bocciato.
E adesso? Come uscirà la mia voce dopo un lungo pianto?

Abbasso lo sguardo sulla sua mano e me ne resto immobile in quella posa per un po'.
Qual è il comportamento migliore da adottare? Dovrei stringerla?
Oh, no, questo comporterebbe un desiderio di fare amicizia che in realtà non provo.

Il ragazzo la fissa a sua volta. «Lo so, sembra strana e potresti sentirti in soggezione visto il tremolio, ma ti assicuro che di solito ho una presa salda» dice e ammicca, ricordandosi troppo tardi della presenza del livido. Difatti lo sento gemere e maledire la sua stupidità.
Stringo le labbra.
Devi essere gentile, Damien, altrimenti si domanderà per quale ragione non sei proprio intenzionato ad accettare la sua amicizia. E poi, sembra un tipo insistente, e potrebbe tornare alla carica in classe.
Alla fine avvolgo le sue dita nelle mie.

«Damien» mormoro schiarendomi la gola, cercando così di cancellare ogni traccia di tristezza.

«Piacere» risponde e sorride di nuovo. Mi domando se non sappia fare altro.
Torno al mio posto e, con un fazzoletto, mi asciugo il naso. Per fortuna ha avuto la decenza di non commentare il mio stato pietoso, e di questo mentalmente lo ringrazio.
Fissa ancora la strada: ha lo sguardo lontano, a tratti malinconico.

«Sai, non mi andava di andare a scuola. In realtà, la mia intenzione era quella di arrampicarmi sul piano più alto di quel palazzo e buttarmi giù» rivela con voce neutra, indicando con la punta del dito un grattacielo slanciato.

Scatto con il volto nella sua direzione e spalanco gli occhi.
La sua espressione ferma si riflette nella mia incredulità. Non c'è traccia di scherzo né menzogna.
Sta dicendo sul serio.

«Poi, proprio quando stavo per attraversare la strada, ho visto te e mi sono chiesto come mai fossi così triste» aggiunge con il tono più caldo, stringendosi nelle spalle.
La mia faccia deve essere sconvolta, lo so, però lui alza le sopracciglia e non commenta.
Non lo conosco e potrebbe avere inventato questa storia per costringermi a rivelare le mie preoccupazioni.
No, che stupido. Quale sarebbe il senso nel raccontare una notizia del genere solo per conoscere la mia versione dei fatti?

«Mi dispiace» dico sinceramente colpito, e mi sento strano ed empatico verso questo tipo, forse perché, a quanto pare, non sono l'unico a passare un brutto periodo.

Muove la mano per tranquillizzarmi. «Ma va'. Una volta arrivato in cima la paura mi avrebbe attanagliato lo stomaco impedendomi di muovere un singolo muscolo. In poche parole: me la sarei fatta sotto» si prende in giro ridendo.

Come fa a parlare di un argomento come questo e, nel frattempo, sorridere?

«Ho pensato anch'io di farlo» ammetto di getto spinto da un sentimento interno, una sensazione incomprensibile.
Non sono solito rivelare i miei pensieri a chi conosco, figurarsi a un perfetto sconosciuto. Sono stupito da me stesso e da questa inaspettata confidenza.
Daniel mi passa un braccio attorno alle spalle, confortandomi proprio come se ci conoscessimo da anni con un abraccio che sa di vissuto, quando in realtà è la prima volta in cui parliamo.

«Sai, non si può andare più in basso di così. Puoi solo risalire» dice, e sembra compiaciuto di quella frase a effetto.

In realtà non è vero, c'è sempre un fondo più scuro, e odio profondamente questa visione semplicistica.

«Dai, era un bel concetto. Credo di averlo letto da qualche parte...» ribatte, e ci pensa su mentre io mi divincolo dalla sua stretta.
Non sopporto proprio il contatto indesiderato, eppure Daniel non sembra far caso ai miei gesti. Tira fuori il cellulare dalla tasca e accende lo schermo.

«Penso sia troppo tardi per andare a scuola. La professoressa non ci farà mai entrare» esclama alzandosi in piedi, spolverando i jeans celeste chiaro dalla polvere.
Allora anche lui mi aveva riconosciuto.
Mi scruta e io mi chiedo ancora una volta in che modo si sia fatto quel grosso livido sulla faccia.
Avrà scatenato una rissa?
Non somiglia al classico tipo a cui piace menare le mani; ha il fisico troppo gracile.

«Cosa ne dici se andiamo a bere una buona cioccolata calda? Questo freddo mi sta gelando il fondo schiena» propone e il suo corpo rabbrividisce, come a voler rafforzare le sue parole.
Annuisco immediatamente, e di nuovo resto stupito dal mio movimento naturale.
Sono più uno che ragiona, ma adesso è entrato in gioco l'istinto: Daniel mi ha trasmesso una sensazione di calma, e per qualche secondo i pensieri si sono allontanati lasciando solo silenzio nella mia mente affollata dai ricordi.
Piacevole.
Davvero piacevole.

Tende la mano, mi aiuta a sollevarmi e ci incamminiamo per la strada principale.
Ho il passo più lento e mi tengo un po' indietro, mentre la mia parte interna inizia a mettersi in allarme. E se non fossi in grado di sostenere un discorso? Se finissi per dire qualcosa di troppo?
Per fortuna, Daniel è una macchinetta, ed è capace di tenere in piedi un discorso da sé.
Non credevo che la stessa persona di pochi minuti fa, quella che ha confidato la voglia di suicidarsi, potesse invece rivelarsi una fonte inestimabile di buon umore.

Finisco per venire a conoscenza della presenza di una sorella di nome Roberta, della sua passione per le moto, persino del suo infinito amore per le belle curve delle donne.
Non mi incalza mai, neppure per un secondo. Sento come se avesse compreso i miei tempi.
Deglutisco.
Posso farcela.

«Ho un fratello di nome Jason» rivelo incerto mentre lui sorseggia la bevanda, stando attento a non bruciarsi la lingua con il calore.

«Jason? Sembra il nome di un personaggio di un film. Non so, come una spia o un agente di polizia.»

Poggia i gomiti sul tavolo e la testa contro la mano, adesso pensieroso.
Non ho mai pensato al nome di Jason in quei termini, quindi mi limito ad alzare le sopracciglia e ad annuire.
Quella è la mia unica frase pronunciata, quindi lui ricomincia a parlare.
Il mio silenzio non sembra infasidirlo, anzi, in un momento rivela di sentirsi affascinato dalle persone capaci di ascoltare: «Io, ad esempio, non so proprio stare zitto. Sono una fonte continua di aneddoti. Appena posso, mi metto in mezzo» rivela, fiero di se stesso.

I miei occhi tornano verso il suo livido, ma niente, neppure lo sguardo più insistente, tirano fuori la verità.
Sono un ragazzo curioso, non posso farci nulla.
Tra una chiacchiera e l'altra si fanno le undici e Daniel si stiracchia rumororo.

«Credo sia arrivato il momento per me di tornare a casa. Ma prima...», estrae il cellulare, «... Dammi il tuo numero» dice accendendo lo schermo.
Prendo fiato un paio di volte e ripenso al mio telefono spento da quasi un anno, probabilmente sommerso da uno spesso strato di polvere e nascosto in qualche cassetto, pur di non rivederlo mai più.

«Io... non lo uso» ammetto con fatica.
Sembra stupito, poi corruga la fronte.

«Sei uno di quelli che bandisce la tecnologia, un fanatico della carta?» domanda curioso.

Magari fosse così semplice. In realtà si tratta di un vecchio modello di mio padre. Lo usavamo soltanto per la nostra caccia al tesoro nella città: lui mi mandava gli indizi e io dovevo seguire le istruzioni alla lettera.
Il fiato accelera e stringo così forte il manico della tazza da farmi male alla mano.
Ho bisogno di andarmene. Pensavo di riuscire a tenere lontani i ricordi almeno per una mattinata, eppure ogni cosa mi riporta al passato.
Sono stato uno stupido a credere di essere in grado di mescolarmi agli altri, che avrei potuto uscire, anche solo per poco, dal mio bozzolo di depressione.

«Va bene, tranquillo. Io, per esempio, ci guardo robaccia sul mio» ride ammiccando, lanciandomi poi uno sguardo eloquente.
Dov'è la fregatura? Aspetto con i nervi a fior di pelle le sue domande, ma, al contrario di ogni mia aspettativa, Daniel si alza e si lega al collo la sciarpa, fischiettando come se niente fosse.

Lascio andare il respiro imitando i suoi gesti, forse in modo meccanico.
Sono teso, un fascio di muscoli dolorosi. Una voce interna mi consiglia di non abbassare le difese fino al mio ritorno a casa che spero giungerà presto.

«A domani, Damien» dice con allegria, ignaro dei miei problemi interni. «Mi ha fatto piacere conoscerti meglio» aggiunge con una pacca sul braccio.
Annuisco senza trovare il coraggio per dire qualcosa.
Anche a me ha fatto piacere.
Se solo riuscissi a dirglielo. Ho la gola secca, la lingua incollata al palato.
Qualche secondo e lo vedo allontanarsi.
Resto per un po' fermo davanti al locale. Il campanello della porta non fa altro che trillare mentre i commensali entrano ed escono, alcuni si lamentano del freddo, tuttavia, niente di tutto quello mi distrae dai pensieri.
Daniel ha gettato indietro i suoi problemi ed è persino stato in grado di intavolare un discorso della durata di tre ore.
Come c'è riuscito?
Per desiderare di farla finita deve averne passate tante, eppure ha trovato la forza di mostrarsi agli altri sotto una nuova luce.

Sulla strada di casa rifletto a fondo su quella mattinata.
E se anch'io fossi capace di fare ciò che ha fatto lui? Di nascondere i miei problemi e dedicarmi a qualcosa di più grande e importante?
Dopotutto, non posso restare solo per sempre.
Rientro in casa e la voce di mio fratello mi chiama, eppure non lo ascolto e vado in bagno, chiudendomi la porta alle spalle.

Lancio un'occhiata allo specchio e tiro su le labbra dagli angoli, mimando un sorriso.
Ho sempre creduto che la mia mania di fingere di stare bene con Jason non servisse a nulla, che il mio periodo di allenamento non avrebbe dato i suoi frutti.
Vedendo Daniel, però, ho capito molto.
Lui, in qualche modo, ha trovato il modo di spazzare la polvere sotto il tappeto e mostrare una facciata perfetta.

Poso una mano sullo specchio freddo, la giro in orizzontale e la muovo verso l'alto, coprendo la parte superiore del mio volto, lasciando scoperta soltanto quella inferiore.
Sollevo le labbra. Somiglio a una ragazzo afflitto da così tanta tristezza?
Per niente.
Abbasso il braccio, lo lascio ciondolare e mi fisso intensamente. Dovrò lavorare sugli occhi, sulle smorfie, su ogni singolo muscolo facciale più di quanto io non faccia già.
Passa una mezz'ora e neppure me ne accorgo, talmente sono impegnato.

Uno scopo; ecco ciò di cui avevo bisogno.

Mi rispecchio nelle iridi brillanti di una luce nuova.
Sorrido, una linea perfettamente tirata e morbida.
Ingannerò tutti, persino me stesso.

Posso farcela.




**********

Angolo Dell'Autrice: Ebbene, avevo promesso un capitolo del passato, ma non vi avevo detto come Daniel fosse un complice del carattere di Damien u.u
Il poverino non aveva intenzioni cattive, però sappiamo come Damien prenda le cose molto male! xD Be' vediamola da un altro lato: senza Daniel, Damien si sarebbe lasciato andare, invece ha trovato uno scopo u.u (cerco di convincere voi lettori ahahah)
Vi propongo un disegno fatto da me dove ho provato a immaginare i miei personaggi \*O*/ Damien ha la faccia tipo *ma che vuoi?* ahahaha xD
Grazie per aver letto!

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