Prologo III

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16 marzo 1579

Larenc ricordava fin troppo bene la battaglia. La vista dell'enorme Dragone, di un verde scuro, le sue scaglie splendenti, e come il mostro era disceso sul campo di battaglia, portando nient'altro che distruzione. Era un'illusione, lo sapeva, ma la paura era reale.

E gli occhi dorati di quella bestia avevano fissato così intensamente i suoi che Larenc era arrivato a dubitare di se stesso, e questo – gli avevano sempre ripetuto – era uno degli scenari peggiori che potessero verificarsi, soprattutto durante una battaglia.

Non avrebbe dovuto mai perdere la fiducia in se stesso. Nei suoi compagni, forse, ma non in se stesso.

Ma era ciò che aveva fatto. Aveva ripetuto ai membri della sua squadra che quella che avevano davanti era solo un'illusione, ma la paura li aveva immobilizzati abbastanza a lungo da permettere agli Yksan di avere la meglio. Li avevano uccisi, uno a uno. E lui non aveva saputo fare altro che nascondersi dietro al suo nagyvet, nella speranza che il peggio passasse, e attendere l'occasione giusta per scappare, come un codardo.

E proprio quando l'occasione sembrava buona, ecco tornare il Dragone, e non solo. Larenc era a terra, sconvolto dall'urto e dal paesaggio cruento e insanguinato attorno a lui.

E di fianco al Dragone, eccola. Lei. La traditrice. La Djabel del Dragone. Lanes Kerol.

Larenc ricordava il giorno del loro primo incontro come se fossero passate soltanto ore da quel momento. Aveva visto Kerol per la prima volta l'otto maggio del 1575. Ma sia quel momento che il suo sorriso erano lontani migliaia di anni dall'espressione impassibile della giovane donna che ora gli tendeva la mano.

In quel momento, i suoi occhi ambrati erano quelli di un serpente, e sembravano bruciare. Sembravano essere proprio loro la causa di tutto quel fumo sul campo di battaglia.

E quello sulla sua bocca non era un sorriso. I suoi denti bianchi gli erano apparsi più affilati del dovuto, le sue labbra curvate a formare un ghigno crudele.

Voleva aiutarlo o trascinarlo via con sé? Larenc non se l'era sentita di rischiare. Non si fidava di lei, ma non la odiava. Non riusciva a odiarla, nemmeno con la certezza che fosse stata la causa della morte della sua squadra.

Non aveva preso la sua mano. Ma nemmeno il fucile.

Aveva scosso la testa, ritraendosi, era balzato all'indietro ed era scomparso dietro le righe dei Tesrat.

Il Dragone aveva sbuffato, quasi a deriderlo, e Larenc non avrebbe saputo dire se la voce che aveva sentito fosse quella di Kerol, o una delle tante che rimbalzavano per la sua testa.

Patetico.

Era tornato all'accampamento, dove si trovava ora, accerchiato da Paranx, Orsem e Halosat. Chiunque si trovasse al di sopra del suo rango nell'esercito di Zena sembrava essersi radunato attorno al tavolo a cui stava seduto l'unico superstite della Squadra 812.

«Non ho la minima intenzione di sottostare a queste imposizioni» disse Larenc, risoluto.

Dai suoi occhi neri trapelava tutta la sicurezza che poco prima sembrava essere svanita nel nulla, insieme all'illusione del Dragone.

L'Halosat Endris Walturn ricambiava la sua fermezza con occhi identici. Era da lui che Larenc aveva imparato. Da suo padre. «È tempo che tu ti prenda le tue responsabilità, Tesrat Comandante Endris» rispose, freddo.

Odiava quella formalità. Tutti i presenti sapevano che si trattava di padre e figlio. Perché dovevano nascondersi dietro a stupidi nomignoli e falsi titoli?

«Ma, padre—»

Walturn batté il tacco a terra. Ogni tentativo di ribattere era nullo. Larenc lo sapeva. Eppure, ostinato, tentava.

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