Loura lanciò uno sguardo alla sorella, come a chiederle se conoscesse quel ragazzo, ma Rozsalia, di risposta, scosse lievemente la testa. I suoi capelli rossi e lunghi ondeggiarono, mimando le increspature dell'acqua della fontana dietro di lei.

Ma, allora, perché quel giovane conosceva i loro nomi? Loura lo guardò sottecchi, mentre Rozsalia fallì nel vedere il male in lui. «Sì,» confermò, infatti, senza sospettare secondi fini, ingenua. «Hai bisogno di qualcosa?» gli chiese.

«Oh, no, nulla» l'altro scosse la testa. «Sono qui per portarvi un messaggio, da parte dell'Imperatore.»

Le due sorelle non tentarono nemmeno di nascondere il loro stupore. Che cosa mai avrebbe potuto chiedere a due semplici studentesse, l'Alto Imperatore? Che cosa avevano di così importante, due ragazze, due sorelle, orfane, e devote all'Impero di Zena al pari di ogni altro cittadino? Che cosa avevano di diverso?

«Si tratta di una semplice richiesta» continuò l'altro, «Dovete attendere.»

«Attendere?» ripeté Loura, incrociando le braccia al petto, con il timore crescente che si trattasse di uno scherzo. «E attendere che cosa?»

«Qualcosa che state già attendendo, da molto tempo» rispose l'altro. «Ciò che desiderate, una persona che vi manca molto, un'armonia che era stata persa. Dovete attendere, e vi sarà tutto restituito. Questo ha detto l'Alto Imperatore.»

Il giovane accennò a un saluto, e fece segno che doveva andare. Loura lo congedò con un cenno del capo, e questi si dileguò, come fosse un cane randagio cacciato via in malo modo.

Loura lo guardò allontanarsi, compiaciuta dell'effetto che aveva avuto.

Era abituata a spaventare le persone. La cicatrice che ricopriva la parte sinistra del suo volto, oltre al collo e alla spalla, aveva messo in fuga la maggior parte delle sue conoscenze. Era abituata a stare da sola, con nessuno eccetto Rozsalia al suo fianco, ma non aveva bisogno di appoggiarsi a nessuno. Era Rozsalia ad appoggiarsi a lei. Loura doveva solo dare l'impressione di essere forte.

Ma le impressioni non sono la verità. Loura sentiva troppo spesso il bisogno di piangere, di urlare la sua invidia per la figura perfetta e pura che era Rozsalia, e di urlare il suo odio, verso quello che non considerava nemmeno più un padre, ma un folle, che era la causa della loro sofferenza, e della sua solitudine.

Era accaduto molto tempo prima, ma la cicatrice rendeva attuale quel dolore e quella paura, ogni volta che Loura si guardava allo specchio. Per questo evitava di farlo.

Quello che allora considerava ancora suo padre era un Djabel della Fenice, come lo era Rozsalia. Da un lato, Loura era felice di non aver ereditato quel dono della distruzione, ma dall'altro non riusciva a non provare pena per Rozsalia, che era costretta a portarselo sulle spalle. Se era la cicatrice a ricordare a Loura di quella dolorosa notte, era la sua abilità di Djabel a condannare Rozsalia. Per questo aveva scelto di combattere solo come Tesrat, e stava continuando a evitare gli incarichi che l'avrebbero mandata al fronte, concentrandosi sul rendimento scolastico e impegni extra-curricolari più vicini ai lavori d'ufficio.

Loura ricordava ancora fin troppo bene l'odore del fumo. Era come se le minuscole particelle di polvere e cenere si trovassero ancora nel suo naso e nei suoi polmoni.

La loro famiglia era reduce da una tragedia, quando avvenne l'incendio – il padre aveva subito uno sfregio cerebrale che lo aveva portato a perdere la vista. Perdendo il controllo dell'illusione della Fenice, per quei pochi fatali istanti, non aveva potuto fare nulla per salvare la moglie dagli Yksan. Era morta sotto i suoi occhi, ma lui non l'aveva vista morire. Aveva solo udito le urla e il frastuono della guerra. Aveva solo annusato l'odore del sangue e della polvere da sparo.

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