Capitolo 9

1.1K 178 49
                                    

Le persone hanno modi diversi per sfogare il loro dolore.

Ashton entrò in casa tremante, era tardi e vide sua madre in vestaglia in cucina, con un bicchiere di latte in mano. I grandi occhi della donna lo colpirono. Il viso tirato, il collo sottile, le labbra strette in una linea severa, i boccoli di capelli biondi ossigenati le incorniciavano la faccia. Ellen non gli rivolse una parola. Una donna di ghiaccio che non si sarebbe lasciata scalfire da niente.

Si era fatto riaccompagnare a casa da Andrew ed era sgattaiolato via dalla macchina senza avere il coraggio di guardarlo negli occhi mentre gli diceva che andava tutto bene. Voleva rimanere da solo, compresso contro la porta della sua stanza, con la faccia schiacciata nelle mani e gli occhi strizzati talmente forte da fargli venire un atroce mal di testa.

Per tutta la sua vita Ashton non aveva fatto altro che cercare approvazione da parte dei suoi genitori, vivendo in un clima senza amore. Sin da bambino elemosinava carezze e baci, stringeva le mani dei suoi genitori e se le portava addosso, abbracciava i suoi pupazzi fingendo che fossero loro. Festeggiava ogni compleanno da solo, seduto al grande tavolo della loro casa, con una torta raffinata e una candelina che nessun adulto si prendeva la briga di accendere. Da quell'educazione ne era venuto fuori un ragazzo incapace di relazionarsi con gli altri, taciturno, triste e insicuro, alla ricerca disperata di un po'di affetto.

Phoenix gli si era avvicinato per la prima volta alle elementari.
Sin da piccoli si andava delineando quelli che sarebbero stati i loro caratteri: Phoenix litigava con tutti, era preso di mira, picchiato e perseguitato da ogni bambino che seguiva il parere dei suoi genitori, ma non aveva paura di rispondere ad ogni attacco.

Un giorno Ashton era accovacciato nel cortile e giocava con un gessetto sul cemento.

Phoenix, con i suoi vestiti sdruciti e sporchi, gli si avvicinò e si sedette al suo fianco.

Iniziò un'amicizia che nessuno riuscì a spezzare, neppure il padre di Ashton, Bred, quando picchiò suo figlio proibendogli di vedere uno straccione qualunque. Al loro gruppo si aggiunse cinque anni più tardi Andrew.

Il ragazzo si era appena trasferito e non si sapeva nulla della sua famiglia.

Si vedeva la madre uscire di casa raramente e comprare qualcosa da mangiare, ma era una persona riservata, non parlava con nessuno e questo contribuì alla nascita di una curiosità mai saziata.

Andrew era quello che ci voleva a Phoenix e Ashton: con la sua innata allegria e voglia di fare aveva portato una ventata di aria fresca, era quello che non permetteva a nessuno dei due di essere tristi e, se proprio dovevano, offriva la sua spalla per qualunque problema.

Andrew non aveva alcun tipo di dolore, o almeno nessuno lo avrebbe mai pensato.

Il dolore di Phoenix era qualcosa di distruttivo, che spazzava via come un uragano tutto ciò con cui entrava in contatto.

Camminava al buio.

Era affetto da un dolore malato di rabbia. E se anche non avesse ucciso, sarebbe stato in grado di farlo.

Stava scoppiando ed era quello che Dyana aveva percepito nel loro ultimo dialogo. E lei, che aveva lo stesso animo sgualcito, non lo lasciò solo.

Non si trattava di essere testardi, ma in quella repulsione aveva sentito la richiesta disperata di aiuto.

Dopo pochi minuti aveva imboccato con la macchina la sua stessa strada. Ad un certo punto i fanali illuminarono una figura umana: Phoenix era solo e sedeva sul marciapiede al ciglio della strada.
Lei scese e lo raggiunse. Si sedette al suo fianco

-Vattene-

-È notte, sei solo. Ti accompagno a casa-

-Non voglio che vieni a casa mia, lascia stare-

-Senti, Phoenix, ormai penso sia chiaro che non lascio stare, quindi adesso smettila-

Si rialzò e si pulì il vestito dalla polvere, tese la mano al ragazzo per aiutarlo ad alzarsi. Lui la guardò e rise, come se avesse davvero potuto sostenere il suo peso. Si alzò da solo e andò verso la sua macchina.

Phoenix abitava in una comunità etnica o, più comunemente, un ghetto. Era un sobborgo che si trovava al di là della foresta di Steeland. Erano ammassate delle roulotte e delle tende da campeggio su un campo di terra bruciata. Sarebbe stato tutto buio se non ci fossero stati dei bidoni in cui risplendevano dei fuochi alti.
Lì nessuno aveva la pelle bianca.

Phoenix giunse difronte a una roulotte e cercò le chiavi nella sua tasca

–Sappi che è quella migliore. Ho persino un divano- disse ironico

-Phoenix, mi stanno guardando tutti-

-È normale, ti sei vestita come una principessa. Ti sembra il palazzo reale, questo?- chiese ridendo

-Phoenix!-una donna arrivò all'entrata con una candela accesa.

Aveva lunghi capelli ricci e neri, occhi grandi incorniciati da ciglia folte, il corpo prosperoso avvolto in una vestaglia bianca. Non appena vide Phoenix gli gettò le braccia al collo, lui si abbassò per cingerle la vita

-Mamma- disse, mentre lei si lasciava andare in un pianto dirotto sul suo petto

–Mamma, sto bene, calmati. Sto sempre bene-

-Tu sei sporco di sangue, non stai bene. Lo hai rifatto, ti avevo detto di non permetterti più. Non so cosa fare con te- urlò e si affacciarono alla porta dei visi curiosi, per controllare cosa stava succedendo. Phoenix si chiuse dentro

-Questa è Dyana, mi ha accompagnato. È una mia compagna di scuola- cambiò discorso e la donna posò gli occhi pieni di lacrime sulla ragazza. Le sorrise immediatamente, tirando su con il naso. Le prese la mano e gliela strinse, poi la baciò su entrambe le guance

-Io sono Marla. Una compagna di scuola? Pensavo che nessuno ti parlasse più-

-E perché mai, signora?- chiese stupita Dyana, con un tono di voce che aveva riacquistato la sua solita sicurezza –Suo figlio, a parte il comportamento scellerato da scimmione, è veramente carino-

–Mi fa piacere sentirti dire questo- le disse sincera –Scusami se ti accolgo così, ma non aspettavo visite. Siediti, ti porto del latte caldo-

Phoenix si mise a ridere e si sfilò la maglia, difronte a Dyana, che poté indugiare nuovamente su quel corpo scolpito, illuminato appena dalla luce delle candele disseminate nella roulotte.

La pelle ambrata luccicò, prese un asciugamano che si trovava sul divano e bagnò l'orlo sotto l'acqua del rubinetto. Si avvicinò e posò la stoffa bagnata sulle macchie di sangue, per potergliele lavare via

Entrò nuovamente sua madre con una felpa -Devi scusarmi, Dyana, ma stiamo passando dei tempi difficili. Il sindaco ci ha tagliato tutte le risorse-

-Già, ha anche minacciato di mandarci via- sbottò Phoenix, indossando la felpa. Si sedette sul divano, facendo cenno anche a Dyana di mettersi al suo fianco.

-Mamma, perché non vai a letto?-

-Perché non ho sonno, sono rimasta sveglia ad aspettarti tutta la notte- Marla aveva un corpo e un viso bellissimi, sciupati da chissà quale dolore silenzioso.

-Per favore, vai a riposare. Io saluto Dyana, deve tornare a casa- la madre solo a quelle parole si alzò, non volendo essere indiscreta.

-Va bene, vado. Dyana, torna quando vuoi, sono felice che Phoenix abbia un'amica. Lui non ha mai avuto molte persone al suo fianco- sparì nell'altra stanza.

–Puoi andare, ora sto bene, come vedi-

-Tornerò, se vorrai-

Phoenix non capiva perché qualcuno sarebbe voluto tornare per lui.

BehindWhere stories live. Discover now