Ore 7.30 della mattina del 29 luglio 1987.

Ero seduta su una delle sedie di alluminio all'ospedale, i miei fratelli non erano con me. Attendevo che si facessero le otto e mezzo, così sarei potuta entrare nella stanza in cui era ricoverata mia madre e farle visita. I medici ci avevano detto che ormai non le restava molto, anzi, sarebbe potuta spirare via anche nella notte. Certe cose non le puoi decidere, tanto meno comandarle.

Accanto a me c'era una grossa scatola rettangolare, verticale, al cui interno vedevo un groviglio scombinato di fili colorati e De le piccole lucine lampeggianti, come quelle di un albero di Natale, stesso ritmo. Guardando quella cosa, di cui non sapevo il nome, immaginavo (forse stupidamente) che il nostro corpo funzionasse allo stesso modo: ad un certo punto c'è un cortocircuito, succede qualcosa, qualcuno magari decide di staccare la spina e la vita finisce lì. Eppure mia madre era una macchina perfettamente funzionante. Più guardavo quei fili incasinati e più quelli sembravano volersi avvincere a me, come se volessero prendermi e trascinarmi in quella specie di teca metallica ed intrappolarmi lì. Non so, mi dava questa sensazione. Ma non riuscivo a smettere di fissarla: collegavo quel funzionamento informatico a quello umano, avevo la sciocca pretesa di voler aggiustare le cose, di far tornare tutto com'era prima. Ogni volta che andavo a visitare mia madre, cioè tutti i giorni, le raccontavo di cosa succedeva a casa ma inventando la maggior parte delle cose. E questo faceva male ad entrambe, perché lei nonostante annuisse e ridere di quel che le dicevo io, in cuor suo, sapeva che non era così. Ogni volta, ogni maledetta volta che mettevo piede in quell'ospedale e nella sua stanza, era un profondo tonfo al cuore. Sentivo lo stomaco contorcersi, il corpo tremare e il petto come se venisse ferito, come se una lama lo trapassasse lentamente. Un boccone talmente amaro che ho dovuto mandare giù in qualche modo.

Alice sedeva nella sala d'attesa del terzo piano dell'Estern Maine Medical Center con le gambe tese in avanti, le mani ben salde alla sedia, ritratta nelle spalle e con la testa china. Era sola. Le persiane del finestrone, alto e posto al centro della parete terminante, leggermente aperte, lasciavano filtrare la luce del sole non ancora alto, proiettandone i raggi sul pavimento bianco a quadrettoni. Sulla sedia accanto aveva poggiato la grossa borsa in stoffa che portava sempre con sé, dentro teneva alcuni libri, quelli che avrebbe letto a sua madre, anche se la signora Taylor preferiva i racconti scritti da sua figlia. Alice aveva molta fantasia che non tirava fuori spesso, in quel periodo la sentiva dissolversi per fare spazio al nulla. La sua mente era vuota, annebbiata soltanto dalla paura che le stava lentamente mangiando il cervello. Alice ne era consapevole, si rendeva perfettamente conto che tutta quella negatività la stava logorando, come le metastasi stavano divorando sua madre. La donna soffriva molto, ma si rifiutava di prendere farmaci che le alleviassero il dolore, anche perché alcuni di questi avevano come effetto collaterale l'alterarsi dell'umore, e la signora Taylor non voleva che sua figlia ricordasse sua madre diversa da come l'aveva sempre conosciuta. Era disposta a soffrire tanto, combattendo inutilmente per nascondere ciò che era evidente, ma la volontà di restare sé stessa fino alla fine era più forte di qualsiasi altra cosa e si scontrava in un braccio di ferro con l'immenso dolore che una madre può avere:

il rimpianto di non vedere la propria figlia crescere.

Ne aveva goduto soltanto di una piccola parte, tredici anni insieme non bastavano. Sì, Alice aveva tredici anni quando sua madre morì. Riuscì a terminare l'anno per miracolo, ma quello successivo lo avrebbe perso. La signora Taylor le aveva sempre raccomandato di non abbandonare la scuola, di continuare a studiare, perché l'istruzione «è fondamentale tesoro, voglio che mia figlia impari a pensare con la sua testa, a ragionare, che si appassioni a qualcosa e un domani abbia un futuro che la faccia sentire realizzata e felice» diceva con la voce rotta e debole, la signora Taylor. Alice annuiva, in silenzio, scandendo e recependo ogni singola parola pronunciata da sua madre.

Un anno scolastico perso, non poteva valere quanto il tempo passato con te. Se un domani sarò una madre, se avrò dei figli miei, insegnerò loro che il tempo non ce lo regala nessuno se non noi stessi. Insegnerò ai miei figli cosa vuol dire avere certe responsabilità sulle spalle! scrisse Alice, in quel lontano 1987. La signora Taylor era a conoscenza del diario di sua figlia, ma non lo aveva mai letto e mai lo avrebbe fatto. Non voleva nemmeno immaginare quanto potessero stare male i suoi bei tre figli. Suo marito, come scrisse sempre Alice, era già volato sulla luna da tempo abbandonando i ragazzi a sé stessi. Li manteneva economicamente, a contribuire c'erano anche Vincent e Caleb, loro due si erano rassegnati da tempo.

Nell'autunno 1988 It si era risvegliato ed aveva attaccato il piccolo Denbrough nel mese di ottobre. Nello stesso mese, It si sarebbe manifestato ad Alice per la prima volta, ma non con la stessa marcatura con cui lo avrebbe fatto nell'estate dell'89. Una notte Alice non dormì proprio bene, anzi, si potrebbe dire che quasi non dormì, si era svegliata diverse volte e ad orari diversi. Ogni volta che si girava e rigirava nel letto, prima di farlo, alzava la testa per controllare che nessuno fosse nella sua stanza ed infatti non c'era nessuno. Eppure aveva sempre la sensazione che qualcuno fosse lì a controllarla, non guardarla, ma proprio controllarla. Nessun mostriciattolo folkloristico era accovacciato sul suo petto, nessuna ombra levitava sopra di lei, nessuna mano sbucava da sotto le reti della branda del letto, nessun mostro di qualunque forma e tipo si nascondeva nel suo armadio, e nessuno spettro bussava ai vetri della finestra. Non volle nemmeno allungare la mano e premere il pulsante dell'abatjour per accenderla, niente luce la notte. Nemmeno una candela o una torcia accesa. Tutto era buio. Le persiane della finestra appena calate, metà finestra restava sempre scoperta per lasciar filtrare la luce lunare o quella notturna di un lampioncino fuori casa. Accanto alla sua stanza c'era quella condivisa da Vincent e Caleb, di fronte alla loro quella matrimoniale, completamente vuota, anche se veniva pulita quasi ogni giorno e le lenzuola venivano regolarmente cambiante.

Una notte feci un sogno, o almeno, credetti che poteva trattarsi di questo...

Ero all'Estern Maine Medical Center nel corridoio dove solitamente attendevo per far visita a mia madre; lei era nella stanza, seduta sul suo letto con le mani poggiate sulle gambe, ancora coperte dal lenzuolo. Per essere lì e malata, nel mio sogno era bella come prima della malattia: mi sorrideva, io ricambiai il suo sorriso. Tese un braccio nella mia direzione e muovendo la mano su e giù, lentamente, fece per chiamarmi, io ero pronta ad andare quando vidi che il suo volto cominciò a sfigurarsi: la pelle era come se avesse delle crepe, simili a quelle di un vaso rotto, mentre il corpo dimagriva tutto d'un colpo. Vidi lei trasformarsi, la bocca deforme in un ghigno malefico per poi aprirsi e cacciare fuori un urlo stridulo e fastidioso. La pelle era diventata verdastra così come tutto l'ambiente circostante, mia madre ora non era più seduta ma sui quattro arti, come un ragno, e stava avanzando velocemente verso di me. Un profondo senso di terrore mi pervase, tutto intorno a me stava tremando e crollando, mentre lei arrivava sicuramente pronta per farmi del male. Io non volevo crederci, mia madre non poteva fare una cosa del genere a me! Mi svegliai di colpo, il cuore stava per saltarmi fuori dal petto, come un colpo esploso dalla canna di una pistola. Accesi subito la luce e mi guardai attorno: nessuno. Non c'era assolutamente nessuno. Ero sola.

Era soltanto un brutto sogno.

Gettò i capelli dietro le spalle, raccogliendoli nelle mani e facendo scorrere le dita sulla folta chioma biondo cenere. 

«La realtà è decisamente peggio...», mormorò. 

"Like lambs to a slaughter..." | IT - 2 0 1 7Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora