Capitolo XI - Rimpianto o rimorso?

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«Oi, stronzo! Ce ne hai messo di tempo a venire sul tett-», iniziò a sbraitare Jean, voltandosi, per poi lasciarsi morire le parole in bocca.
Chi si era presentato all'appuntamento infatti non era Eren, ma Armin, che era completamente arrossito nel sentirsi apostrofare con tanta aggressività.
«Armin, scusami, stavo aspettando quel ritardatario di Eren... tu che ci fai qui?»
Il biondo arrossì maggiormente, ormai nella più completa agitazione. Era arrabbiato, emozionato, spaventato: aveva capito le intenzioni dello Jaeger, ma di certo non approvava di essere ingannato così. Ma perché aveva organizzato quella messa in scena? Sapeva qualcosa a lui tenuta nascosta, o gli aveva semplicemente creato un'occasione?
«I-in realtà lo stavo cercando anch'io... se ne sarà dimenticato», mentì l'Arlert, mentre cercava di regolarizzare il battito del suo cuore.
«Quell'idiota... domani gliela faccio vedere io! Ci vediamo domani, Armin», sbuffò sonoramente Jean, incamminandosi verso la porta che lo avrebbe condotto verso le scale. Lontano da quel tetto, lontano da lui.
«Jean!», urlò improvvisamente il biondo, trattenendolo da un braccio e costringendolo a voltarsi verso di lui.
Non aveva idea del perché lo aveva fatto. Semplicemente, aveva bisogno di lui. Voleva intrecciare le sue dita con quelle del castano, accarezzare le sue imperfezioni, avvilupparlo fra le sue braccia, limare e arrotondare i suoi spigoli. Forse erano troppo diversi, forse non erano fatti l'uno per l'altra: ma magari, ritagliando da una parte all'altra i loro cuori, sarebbero riusciti a farli combaciare.
«Che c'è?»
Armin ripensò ad Eren. Doveva ammetterlo: quel ragazzo non era di certo un esempio da seguire, e considerava sé stesso inutile spazzatura. Ma non era così, non poteva esserlo. L'Arlert non avrebbe mai invidiato, adorato, detestato o cercato di eguagliare qualcuno del genere; l'Eren che conosceva lui era forte, determinato, testardo, affettuoso, profondo, gentile e - soprattutto - coraggioso.
Anche in quella stessa occasione si era rivelato tale: organizzare un incontro tra i due per permettergli di confessare i suoi sentimenti, chi mai l'avrebbe fatto?
Non poteva sprecare quell'occasione.
«Io...», iniziò, ma serrò le labbra subito dopo.
Armin era consapevole che le parole, almeno quel giorno, non sarebbero servite. E così, spinto dal coraggio donatogli dal suo migliore amico, afferrò per il colletto il ragazzo dal viso equino e avvicinò i loro visi, facendo scontrare avidamente le loro bocche.
Fu un bacio casto, leggero; le sue labbra erano screpolate e poco curate, ma deliziosamente piene e carnose. L'Arlert si frenò dall'assaggiarle con più intensità, nonostante quel misero contatto riuscì a farlo scivolare, lentamente, in uno stato di lucida pazzia.
«"T'amo senza sapere come, né quando, né da dove,
t'amo direttamente senza problemi né orgoglio:
così ti amo perché non so amare altrimenti
che così, in questo modo in cui non sono e non sei"...», iniziò a recitare Jean, senza distogliere lo sguardo dagli occhi azzurri di Armin.
La verità era che quel bacio lo aveva infastidito: avrebbe voluto fare lui il primo passo, confessare i suoi sentimenti per primo, rivelare la sua identità di anonimo al momento giusto. E quando non aveva visto Eren arrivare, aveva capito di essere stato scoperto; ma dopo essere annegato nel mare degli occhi innocenti di quel biondo, aveva improvvisamente avuto paura. Di essere rifiutato, allontanato, addirittura odiato: voleva andare via in fretta perché non riusciva a fare altro che scappare, anche dalla felicità stessa. Era troppo codardo, troppo poco coraggioso, per amare.
«..."così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno."», completò Armin, scoprendo così il mittente di quelle meravigliose poesie.
E quando le loro labbra si incontrarono nuovamente, intenzionate a non staccarsi più, Armin si appuntò mentalmente di ringraziare il suo migliore amico.

Un mese. Mancava esattamente un mese al diciottesimo compleanno di Eren.
Il ragazzo se ne rese conto un pomeriggio di febbraio, chiuso in casa a studiare, mentre fissava il calendario appeso al muro. Lo fissava spesso durante le sue "pause di riflessione" dallo studio che, solitamente, si aggiravano intorno alle due ore ciascuna.
Aveva avuto molteplici occasioni di dimostrare i suoi sentimenti a Levi, ma erano tutte arrivate troppo presto, in fretta, e allo stesso modo erano andate vita, sfuggendogli.
"Cosa farei dopo il liceo, se tutto andasse male?"
Eren non riusciva a smettere di porsi domande del genere.
"Cosa farei se perdessi Levi per sempre?"
Lo Jaeger temeva di rimanere un semplice alunno, uno studente di passaggio, che magari sarebbe scomparso dalla sua memoria entro pochi anni. Non voleva essere dimenticato, non da lui.
"Cosa farei se non potessi più vederlo?"
Finito il suo ultimo anno di liceo, avrebbe abbandonato definitivamente quella scuola. E se non fosse riuscito a far innamorare Levi di sé, non avrebbe più potuto vederlo.
"Avrei un motivo per continuare a vivere?"
Eren conosceva la risposta a questa domanda, e la cosa lo spaventava.
Si era aggrappato a quell'amore con tutte le sue forze, con le mani artigliate, prostrando a continue umiliazioni e sofferenze il suo cuore oramai avvizzito. Era un fiore appassito, il cui bocciolo non sarebbe fiorito mai più.
"Non puoi amare qualcuno se non ami te stesso".
Stronzate. Lui non si era mai amato, ma Levi... Dio, quanto lo amava. Tanto da dimenticare cosa significasse odiarsi.
«Luigi Pirandello fu... oh, fanculo», borbottò il castano, riponendo i libri e appunti vari che si ritrovava di fronte.
Fu allora che si rese conto di un quadernetto verde, lucido, sepolto tra i tomi scolastici.
«Brahms - Violin Concerto in D major, I. Allegro non troppo;
Chopin - Ballade No. 1 in G minor, Op. 23».
Gli bastò leggere i nomi di quei brani per sentire le lacrime pizzicargli gli occhi.
I brani preferiti di Carla.
Erano settimane che, mentre si esercitava, provava una strana sensazione all'altezza del petto. Era forse la voglia di tornare a suonare, ad emozionare chi lo ascoltava? Perché voleva così ardentemente entrare nel cuore delle persone, per non essere più dimenticato?
Probabilmente voleva solo lasciare una sua traccia su quella terra, qualcosa che urlasse "io esisto" o, perlomeno, "io sono esistito". Non poteva semplicemente scomparire, non dopo tutta la fatica che aveva fatto per arrivare fino a lì.
«Se tornassi ad esibirmi...», pensò ad alta voce, «...potrei inserire questi due brani nel mio programma».
Il cuore di Eren aveva preso a pompare sangue ad una velocità disarmante; il solo pensiero di suonare di nuovo per gli altri, e non solo per sé stesso, lo fece emozionare. Eppure, era consapevole di non avere il coraggio di farlo.
Se solo non avesse mai imparato a suonare, se solo non fosse stato tanto bravo, se solo quel giorno non avesse avuto la sua competizione più importante, Carla non l'avrebbe mai lasciato. Avrebbe continuato a svegliarlo ogni mattina, preparargli la colazione, sgridarlo per il ritardo; si sarebbe preoccupata nel non vederlo rientrare, l'avrebbe aspettato sveglia fino a notte fonda, per poi rimproverarlo fino al mattino seguente. L'avrebbe fatto di certo, se solo fosse stata lì.
Il talento, a volte, è più una condanna che una fortuna.
«Se con Levi andrà tutto male, voglio impedirgli di dimenticarmi», si disse, colmo di speranza, «gli dedicherò i brani che mamma amava. Se mai tornerò su un palco, suonerò talmente bene che chiunque in città ricorderà il mio nome. Lo tempesterò di notizie su di me, ed Erwin non smetterà di vantarsi di essere il mio maestro», concluse, afferrando un pennarello indelebile per incidere sulla copertina del quaderno il nome del suo programma.
«"Se solo tu mi amassi"».

Se solo tu mi amassi || Ereri 〜 Riren #Wattys2019Where stories live. Discover now