Zoey Graves

523 41 28
                                    

La mia vita è sempre stata come una partita a scacchi.

Una lotta combattuta da un esercito di sedici componenti contro un singolo pedone (e presumibilmente anche un re, dato che altrimenti non potrebbe esserci alcuna partita, ma essendo il pezzo più inutile, era come se non ci fosse).

Per molto tempo non sono mai riuscita a vincere una partita a scacchi contro mio padre.
Prima che realizzassi cosa stesse accadendo, gli sentivo dire, in quel suo tono di voce lento e cadenzato, quasi annoiato:

- Scacco matto. -

C'erano anche volte in cui ci andava più leggero, ma quelle erano le peggiori.
Era come assistere a un massacro.
Uno dopo l'altro tutti i pezzi del mio esercito finivano fuori dalla scacchiera, mentre i suoi continuavano ad avanzare.
E alla fine a me rimanevano solo il re e un pedone.
I due pezzi più inutili. Quasi che, lasciando in gioco solo loro, pur non avendo ancora fatto scacco, volesse farmi capire che non avevo alcuna speranza.

Solo una volta riuscii a vincere, proprio in una partita in cui alla fine a me rimanevano solo un pedone e il re, mentre a lui esattamente la metà dei suoi pezzi, tutti meno che i pedoni.

Quella volta, quasi senza rendermene conto, avevo fatto finire il mio pedone su una delle caselle dell'ultima fila.
Non era mai capitato che riuscissi ad arrivare laggiù e, nel tempo di un battito di ciglia, ecco che al posto di un pedone mi ritrovai davanti una regina.

Avendo messo il suo re sotto scacco, lui fu costretto a spostarlo, dandomi così la possibilità di togliere la regina di lì prima che uno dei suoi pezzi la mangiasse. A quel punto fu questione di poche mosse. Avendo ancora tutti quei pezzi in campo, tutti disposti intorno al re, non ci volle molto per fargli uno scacco tale che lui non avesse più alcuna casella in cui rifugiarsi. Il re si era ritrovato con ogni possibile via di fuga sbarrata dai suoi stessi soldati.

Quella fu la prima volta che io dissi "scacco matto" e fu anche la nostra ultima partita.

~

Avevo da poco compiuto undici anni quando papà iniziò a mancare di casa sempre più spesso.

Potevo leggere la preoccupazione sul volto di mia madre ogni volta che scoccavano le sette e mezza di sera, ora intorno alla quale lui era solito rincasare.

Una cosa della quale per molto tempo non riuscii a capire il senso, però, fu il fatto che la sua ansia, al ritorno di papà, anzichè sparire, crescesse.

Non si sarebbe dovuta sentire sollevata? E allora perché lo osservava con timore?
E perché anche io sentivo un brivido percorrermi la spina dorsale tutte le volte che mi passava davanti?

Forse perchè aveva la pelle intrisa dell'odore di uno sconosciuto.
Non odore di profumo o colonia, come avevo visto accadere fin troppo spesso in televisione.
L'odore che si portava dietro era quello della morte.
Era il rancido e dolciastro odore del sangue.

~

Passi leggeri e frettolosi su per le scale.
Poco dopo altri passi, molto più pesanti dei primi.

Una porta sbattè.
Un grido venne soffocato sul nascere.

Mi infilai le pantofole e avanzai verso la porta, allungando la mano nell'oscurità della stanza, alla ricerca della maniglia.

Mi affacciai nel corridoio, strizzando gli occhi nel tentativo di abituarmi al buio.

Silenzio.
Il ticchettio delle lancette di un orologio.
Un mugolio.

StereotypeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora