Don't open the closet

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Alle cinque del pomeriggio in punto, la situazione all'interno della camera di Gwendolyn Hall era la seguente: lei e Zoey erano sedute sul grande letto a due piazze, intente a chiacchierare e farsi domande a vicenda, mentre io me ne stavo seduto alla scrivania, nel vano tentativo di fare matematica mentre avevo quel fastidioso brusio di sottofondo.

- Quindi è vero che vivi da sola con tuo zio? -

Chiese Gwen tutto d'un tratto, attirando anche la mia attenzione.

Inizialmente mi chiesi cosa ci fosse di tanto interessante o strano in una cosa del genere. Insomma, magari i genitori di Zoey erano sempre via per lavoro o forse lei veniva da uno di quei paesini di campagna dove già era tanto se c'era la scuola elementare e così si era dovuta trasferire qui dallo zio per frequentare una scuola superiore come si deve.

Poi mi ricordai chi fosse davvero Zoey, o meglio, per quale motivo si trovasse qui.

In effetti, chi era davvero il famoso zio di cui si sentiva sempre parlare?
Da quello che avevo sentito in giro, Zoey aveva diffuso nel corso di quell'anno e mezzo almeno venti versioni diverse circa quali fossero l'occupazione e l'identità di suo zio.
Una volta aveva raccontato che fosse un temuto gangster, rifugiatosi in questo piccolo borgo di provincia per sfuggire ai suoi innumerevoli nemici che lo volevano morto. Un'altra volta invece lo aveva spacciato per un ex presidente di non so che Stato del nord e, se non sbaglio, c'era stato un periodo in cui addirittura si era messa a dire che in realtà non esistesse alcuno zio e lei vivesse in una casa famiglia in compagnia di altre sette orfane.

Tuttavia, considerando tutta la questione "spia, indagine & co.", giunsi all'ovvia conclusione che questo fantomatico zio altri non fosse che un suo collega, mandato qui insieme a lei per investigare.

- Sì, è vero. -

Rispose Zoey.

- E... Di che si occupa? -

Chiese ancora Gwen, forse sperando di riuscire finalmente a risolvere quel grande mistero o forse semplicemente curiosa di sapere cosa si sarebbe inventata questa volta quella svita... ragazzina così originale.

- Lavora in banca. -

Rispose semplicemente la rossa, sorprendendo tanto Tsundolyn quanto me. Insomma, come si fa a passare come se nulla fosse da "gangster" a "bancario"?

- Oh. Forte. - Commentò la corvina. E io riuscii a capire dal tono della sua voce che c'era rimasta male almeno quanto me. - E i tuoi genitori? -

- Mia madre è da qualche parte nel Congo a combattere l'ebola. Fa parte dei "medici senza frontieri". Mio padre invece è in un penitenziario in Arkansas, ma non ci rimarrà ancora per molto. -

Ecco. Ora sì che si inizia a ragionare.

- Significa che presto avrà finito di scontare la sua pena e verrà dimesso? -

Le chiese Gwen, cercando in quel macello di situazione familiare una minima cosa di cui rallegrarsi.

- No. Significa che è in attesa della sedia elettrica. -

Come non detto.
In quel momento quasi mi pentii di aver pensato, il giorno prima, che le avrebbe fatto bene una bella scossa sulla sedia.
Quasi.

E così scese il silenzio.

Dopo aver cercato invano di riprendere la conversazione, magari indirizzandola verso un argomento un tantino più piacevole, Tsundolyn si arrese e, con un leggero sospiro, si alzò dal letto, dicendo che sarebbe andata a prendere qualcosa in cucina per fare merenda.

- Certo che sai proprio come ammazzare l'atmosfera. -

Commentai, rigirandomi tra le dita la matita. Sentivo che quel problema di matematica ne avrebbe passate ancora molte prima di essere risolto.

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