Capitolo 2: Dave

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Il mio posto è il B-231.
Ho scoperto che il ragazzo che prima mi è passato di fianco, è seduto di fronte a me.
Ha il B-234.
Sta leggendo dei fogli.
Tiene degli occhiali neri poggiati sul naso, i suoi occhi azzurri si stanno per chiudere e sono solcati da delle profonde occhiaie. Ha la mascella squadrata, è davvero bello.
Il mio occhio cade sulla sua mano: è sposato.
Eppure mi sembra così giovane.
Avrà attorno ai venticinque anni.

Torno a guardare fuori dal finestrino, ma il riflesso del ragazzo si para davanti ai miei occhi. Non riesco a guardare la notte, se i suoi capelli spettinati e i suoi occhi stanchi e spenti mi implorano di andarci più a fondo. Forse voglio conoscerlo. E cercare di capire cosa lo sta divorando. Perché sta male, sta soffrendo. Anche se ha il viso abbassato sui fogli, ho visto che sul suo volto scavato sulle guance, ci sono un sacco di lacrime sfuggite al vento. Nei suoi occhi, che ho visto per una sola frazione di secondo, ho letto tanta tanta tristezza.
Uno sbuffo si fa sfuggire dalle sue labbra. Forse sono troppo empatica.
Devo smetterla di fingermi una psicologa.
Piego le ginocchia e me le porto all'altezza delle spalle, poi le avvolgo tra le mie braccia. Vorrei piangere, ascoltare musica, disegnare, mangiare una pizza, indossare dei vestiti più carini, smetterla di fare liste mentali.

«Avresti una penna?» chiede all'improvviso, passandosi una mano tra i capelli castani ed inchiodandomi con i suoi occhi.
«No, scusa.»

Annuisce impercettibilmente e torna con lo sguardo sulle scartoffie.
Estrae poi il telefono dalla sua ventiquattr'ore nera e sbuffa nuovamente. Lancia il dispositivo sul tavolino e questo scivola fino a finirmi addosso. Cade e mi piego per raccoglierlo, poi glielo porgo accennando ad un sorriso.

«Scusa.» mormora, afferrandolo velocemente.
«Niente.»

Si toglie la giacca nera e rimane con addosso soltanto una camicia bianca. Si arrotola le maniche fino ai gomiti e ripone il cellulare nella tasca dei pantaloni. Ha delle belle braccia, beata la moglie.

Il vagone è vuoto.
Il treno è silenzioso.
Passa sui binari, sotto al cielo di Phoenix che non voglio più vedere.
Lo ammetto, ho un po' di paura a stare qui, da sola, con uno sconosciuto, nel bel mezzo della notte, diretta chissà dove.
Mi stringo, ho freddo.
Abbraccio me stessa; io sono l'unico calore umano di cui posso disporre adesso.
Maledetta aria condizionata, mi verrà l'influenza, me lo sento.

«Stai... Stai tremando? Posso darti la mia giacca, se vuoi.» dice con un mezzo sorriso.
«È colpa dell'aria condizionata... La odio.»
«Dài, tieni, ma non dirlo a mia moglie.» ride e mi porge la sua giacca.
«Grazie mille.» sorrido.

L'abbinamento non è tra i migliori, lo ammetto, ma almeno mi tiene al caldo. E questo mi basta.

«Sono Amanda, comunque. Piacere.»
«Dave, il piacere è mio.» sorride e continua: «Dove sei diretta? Se posso chiedere.»
«A trovare... una zia.» invento, sorridendo. «Tu?»
«Torno a casa. Ero a Phoenix per questioni burocratiche.»
«Sembri frustrato.»
«Non è il periodo più felice della mia vita, diciamo.»
«Capisco.» e sposto lo sguardo verso il finestrino, interrompendo l'ambigua conversazione con questo sconosciuto.

Siamo appena entrati in una galleria.

Dave si schiarisce la voce e rimette tutti i fogli in una cartelletta color giallo ocra. Poi la chiude e la ripone nella sua ventiquattr'ore. Si schiarisce nuovamente la gola ed incrocia le mani sul tavolino. Mi fissa con fare curioso.

Poi se ne esce con: «Non ti ho mai vista a Phoenix.»
«Sono una che si fa notare poco.»

Accenna ad un sorriso.

«Questo viaggio è davvero infinito, che ore sono?» chiede, ma si risponde da solo accendendo il telefono. Poi sbuffa. «Bah. Le tre e mezza.»
«Davvero?»
«Mh-mh.»

Non so più cosa dire, quindi decido di stare zitta e guardare fuori dal finestrino.

Siamo usciti dalla galleria.

«Perché il treno?» chiedo con il mento sulle ginocchia e gli occhi che guardano il cielo.
«Come?»
«Tutti sanno che il viaggio in treno è sempre più lungo rispetto a quello in aereo. Quindi, perché hai scelto il treno?»
Aspetta un paio di secondi prima di rispondermi. «Ho appena finito di lavorare ad un progetto, e visto che sono stanco e voglio tornare al più presto a casa, ho preso il primo mezzo di trasporto che potesse portarmi a casa. Perché questa domanda?»
«Così.» faccio spallucce.
«E allora lo chiedo anche a te.»
«Quando ho saputo che dovevo andare a Los Angeles ero vicino a questa stazione.» invento. «Quindi eccomi qui.»
«Capisco.»

Faccio un sorriso timido e mi guardo le punte delle scarpe, mantenendo sempre il viso tra le ginocchia.
Torno con gli occhi, solo per un secondo, su Dave.
Lo vedo appoggiarsi allo schienale del suo sedile, è visibilmente stanco.
E poi sbadiglia.

«Perché non dormi?» chiedo.
«Quante domande.» ride.
«Scusa.»
«Odio dormire in treno.» mi rivela.
«Potevi prendere l'aereo.»
«Ancora?» sorride, chiudendo gli occhi.
«Hai abbassato le palpebre.»
«Quindi?» chiede aprendo un solo occhio.
«Quindi hai sonno.»
Ride. «Ti chiamavano Sherlock Holmes.»

Mi zittisco, leggermente in imbarazzo, e torno a concentrarmi sul finestrino.
Dopo qualche secondo, sento il mio compagno di viaggio, russare. Lo guardo, ed è carino. Un'aria infantile lo avvolge, facendolo apparire un neonato. Chissà cos'ha, chissà chi è.

Tiro fuori un libro dal mio zaino ed inizio a leggerlo. È l'unico modo che mi rimane per divertirmi.
Sento che questa notte non passerà più e, più allontano da casa mia, più sento i sensi di colpa logorarmi dentro al corpo. Come se dei piranha stessero mangiando tutto ciò che ho dentro di me.
Potrei stare male da un momento all'altro. Una lacrima mi sfugge incontrollata e la cancello passando la mano sulla mia pelle stanca. Sento le occhiaie nere e profonde sotto ai miei occhi. Sono davvero impresentabile.

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Buona serata 😊

-Alessia

B-234 (in pausa)Where stories live. Discover now