Olivia

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Quando lo vidi dalla finestra della cucina, non ci pensai due volte e mi precipitai per strada, senza neanche coprirmi dal fresco vento di quella mattina di principio di aprile. Erano poco più delle sei di mattina di un giovedì e la nostra via era completamente deserta, per cui non gli fu difficile indovinare chi lo stava chiamando da pochi metri di distanza.

Non si voltò neanche dopo aver richiamato il suo nome una decina di volte, sperando che l'essere insistente avrebbe cambiato qualcosa, ma non fu di certo così. Non riuscii ad attirare la sua attenzione finché non lo raggiunsi e, con un movimento veloce, mi misi davanti a lui per impedirgli di continuare ad avanzare.

Da lì, la sua reazione non fu neanche vicina a ciò che mi aspettavo: non mi schivò, non mi sferzò e non si rifiutò di guardarmi.

Se ne stette lì, con gli auricolari ancora nelle orecchie, la bocca socchiusa e gli occhi su di me. E ci fu il silenzio.

Qualche secondo dopo, ebbi l'intenzione di pronunciare il discorso che mi ero ripetuta in testa così tante volte ma, quando vidi l'espressione del suo volto, non fui capace di ripeterne neanche una parola.

Il pallore era addirittura più evidente di quello dei primi giorni dopo la morte di Emma; le borse sotto gli occhi erano scure e marcate, e aveva l'aria di chi passa le notti a fare incubi o a girare per la stanza.

Vedendolo in quelle condizioni, non sapevo se preoccuparmi per il fatto che io potessi essere la causa del suo dolore, o per il fatto che gli fosse successo qualcosa di ancora peggio del mio comportamente negli ultimi giorni di silenzio.

Mi feci avanti e tentai di aprire la bocca per dire qualcosa, qualsiasi cosa; ma lui anticipò le mie azioni.

«Non ho niente da dirti», disse, mentre si dirigeva verso casa sua, alla fine della via. «Non mi aspetto neanche che tu abbia qualcosa da dirmi, e non sei obbligata a parlarmi. Soprattutto se è per compassione o per pena».

«Dalle tue parole sembrerebbe che non ci conoscessimo da un decennio», risposi io, camminando al suo fianco, «Mi sorprende che pensi che possa fare o dire qualcosa nei tuoi confronti solo per pena. Sai quanto ci tengo a te».

«Tu?», chiese con falsa perplessità, «Tenerci?».

Le sue parole mi attraversarono il cuore come se fossero una daga tentando di colpirne il centro, e per un attimo sentii mancarmi l'aria. Mi fermai. Non ce la facevo. La sola idea che lui non mi perdonasse, che io non riuscissi a rimediare ai miei errori, mi uccideva.

«Ollie?», sussurrò tentando di nascondere una preoccupazione che in quel momento non fui capace di vedere.

«Ollie?», sussurrò tentando di nascondere una preoccupazione che in quel momento non fui capace di vedere

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«Lo so che le parole non aggiusteranno niente. E so anche che non dovrei neanche meritare che tu le ascoltassi», iniziai dopo aver ripreso fiato. «Ma non so che diavolo si presume che io debba fare. Che cosa si aspetta la gente che faccia? Come dovrei reagire, dimmi? Come cavolo si suppone che dovremmo agire? Dovremmo riuscire a superare la cosa? Dovremmo riflettere tristezza per i primi sei mesi? Dovremmo far cadere un paio di lacrimette ad ogni angolo per cercare la compassione della gente? Dovremmo essere arrabbiati con il mondo? Con Em? Con noi stessi? Dovremmo concentrare la rabbia nel costruire scuole in Gambia? Oppure dovremmo restare rinchiusi in casa ad osservare le lancette dell'orologio che avanzano mentre noi restiamo fermi, bloccati nel dolore?».

WATERS - l'ultima goccia di teWhere stories live. Discover now