I discorsi interrotti -prima parte-

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L’aria nei miei polmoni sembra essersi pietrificata al suono delle sue parole e il mio orgoglio si è crepato fino a dare vita ad un piccolo cumulo di schegge pungenti.

D’improvviso mi rendo davvero conto della sciocchezza che ho appena fatto e non so reggere il peso della cosa: i suoi occhi restano fissi sul mio viso e le sue dita intrecciate con le mie, d’un tratto, sembrano aghi conficcati nella carne.

Ha la pelle bollente e sento che se non fuggo velocemente da questo bagno, non sarò mai più in grado di conservare un briciolo di autostima. Deglutisco con incomparabile sforzo e cerco di sbarazzarmi delle sue mani, agitandomi contro di lui, attanagliata da un disagio che non sapevo di poter provare.
Lui cerca di placare di miei movimenti scoordinati e tutto questo mi rende ancora più conscia delle mie rotondità e del suo rifiuto.

“Aspetta...” prova a spiegarmi ma, in tutta onestà, al momento non ho alcun desiderio di sentire i motivi dietro al suo blocco: voglio solo uscire da questo bagno, che avrebbe dovuto offrirmi un riparo dall’imbarazzo e che, nel giro di dieci minuti, è diventato il covo dell’incertezza.
Ignorando il mio coinquilino e le sue mani che tornano a poggiarsi sulle mie ginocchia per impedirmi di aggirare il suo corpo ed uscire, riesco a spingerlo lontano da me di qualche centimetro e a scendere da questo ripiano duro come il muro che tra poco innalzerò.

Mi sistemo la gonna del vestito, evitando con impegno di incrociare il suo viso e, forzando una risatina, affermo:

“Ho fatto una cazzata.”
“Med...”
“No, senti. Direi che hai già detto a sufficienza: ma, se me lo concedi, io ora uscirò da questo bagno e mi porterò dietro la mia inadeguatezza.” rispondo millantando una risatina per nulla credibile e cercando di mostrare autoironia.

“No, aspetta. Non è proprio che non lo volevo fare...”
“E allora perché mi ha fermata?”
“Perché mi hai baciato?” chiede lui di punto in bianco con un’espressione provocatoria e avvicinandosi di un passo.
Visto l’angusto spazio in cui è stato sviluppato questo bagno, un passo è parecchio e i miei sensi tornano ad attivarsi: sono un’ allupata, è evidente.

“Perché mi andava...” rispondo, quasi indignata dal fatto stesso che me lo abbia chiesto.
Non è rilevante il perché, quello che conta è che l’ho fatto. E che mi è pure piaciuto, nonostante l‘esistenza di quella sua molesta personalità. E che sarei andata ben oltre.

“Quindi io dovrei credere che dal nulla tu abbia stabilito che infilare la lingua in bocca a una persona che, fino a prova contraria, non sopporti, fosse un gesto ragionato.”
“Che stai insinuando?”
“Niente, sto dicendo quello che penso.”
“L’hai già detto quando mi hai dichiarato di non volerlo fare.”
“Oh, credimi, lo volevo fare. Eccome. Ma ho troppo rispetto per me stesso per...”
“Ma vaffanculo, Alex!”
“Oh, con calma, Scintilla! Perché salti sempre alle conclusioni?”

Lui fa un altro passo nella mia direzione e i miei sistemi di difesa iniziano ad innalzarsi inesorabilmente. Non avevo mai fatto la prima mossa e il suo rifiuto ha definitivamente decapitato ogni mia futura possibilità di avere spirito di iniziativa: se è difficile per le fighe longilinee, immaginate cosa può essere per una come me.
Se poi aggiungiamo al tutto il mio carattere socialmente inadeguato e la mia atrofizzata sensualità, il risultato finale è una ritrovata immobilità verso il sesso maschile.

Che cosa cavolo mi è saltato in testa?!

“La tua affermazione non richiedeva grande interpretazione.”
“Posso finire di parlare?” e fa un altro passo verso di me, riducendo la distanza di troppi centimetri e costringendomi ad avvicinarmi alla porta.

No, alt! ‘Sta porta è stato il punto di partenza.
Riesco a scivolare di lato prima che lui mi blocchi tra le sue braccia e ad afferrare la maniglia, aprendo la porta.

“Lascia perdere. Non avrei dovuto farlo.” dichiaro guardando in quegli occhi perplessi e confusi.

Che avrà mai da essere confuso pure lui, è un mistero.

“Ci vediamo a casa.” mormoro prima di inforcare l’uscita e cercare di allontanarmi da quest’ultima umiliazione.

Ma cosa mi è saltato in testa? Io e Alex? Che diavolo stavo pensando?

“Senti, non hai capito niente...” la sua voce alle mie spalle torna a raggiungermi ma non ho davvero voglia di stare a sentire.
Senza smettere di camminare, mi giro e sollevo una mano per zittirlo.
“La mia dignità stasera è stata colpita abbastanza, non credi? È stato un errore e non so neppure perché l’ho fatto. Mi stavi davvero sulle palle e ora mi ci stai ancora di più. Fortunatamente, dato che non ci sopportiamo, non ho rischiato di rovinare nulla.”

Bum!

Muro di cinta di cemento armato di Med: innalzato.
Orgoglio di Med: pugnalato, in prognosi riservata ma fuori pericolo.
Sguardo di dubbio di Alex: attivo ma assolutamente fuori luogo, quindi mi sento in diritto di dargli le spalle e raggiungere velocemente il tavolo dei miei amici.

Lui mi segue in silenzio e me lo ritrovo accanto anche una volta raggiunto il tavolo: affonda le mani nelle tasche dei jeans - gli stessi jeans che ero assolutamente intenzionata a levargli - e si stringe nelle spalle, facendo scorrere lo sguardo sui miei amici e mordicchiandosi nervosamente l’interno del labbro inferiore.
Tra i ragazzi della mia compagnia regna un silenzio teso ed insicuro mentre scrutano i miei lineamenti sperando di tradurre le mie espressioni in possibili segnali del mio stato d’animo ma trovandosi, immagino, confusi dal mio sorriso tirato.

Poi Alex inizia a spostare il peso da un piede all’altro e si stringe nelle spalle, chiaramente a disagio e con l’aria di qualcuno che vorrebbe dire qualcosa ma che si morde la lingua pur di non farlo.
I suoi movimenti attirano in gruppo gli occhi dei miei amici sul mio coinquilino e, di riflesso, lui si volta verso di me.

E io cosa faccio? Ovviamente arrossisco facendo saltare miseramente la mia debole copetura e provocando la reazione di Jules.

“Che avete fatto voi due in quel bagnetto?” e sorride come una bambina il giorno della Befana.
Alex si schiarisce la gola, dubbioso su cosa rispondere, mentre Leo inarca un sopracciglio incuriosito e io divento ancora più rossa.

“Alex se ne sta andando...” affermo con voce roca e girandomi verso di lui per indicarlo, sperando di spostare l’attenzione di nuovo sul ragazzo al mio fianco.
L’ imbarazzo è una delle poche cose che non so mascherare e questa sera sono riuscita ad accumularne una dose eccessiva: tra L e il rifiuto di Alex credo di aver battuto ogni mio record e non mi piace essere esposta in questo modo.

“Ah sì?” domanda lui con una punta di fastidio e il mio primo istinto sarebbe quello di prenderlo a badilate sul pisello.
“Credo che sul fatto che la serata sia giunta al termine non ci sono grandi dubbi...” borbotta Jack sorseggiando il suo drink mentre osserva con divertimento l’interazione forzata tra me e il mio coinquilino.

Non capisco perché Alex debba essere così stronzo da rendere le cose ancora più difficili.
I suoi occhi sembrano tradire un’improvvisa voglia di discutere con me e il mio disagio per il nostro precedente incontro si scioglie velocemente in rabbia.
Ha anche l’ardire di continuare a rompere le palle?

“Sì, lo è. Sono certa che Alex dovrà svegliarsi presto per qualche misteriosa ragione...”
“In realtà...”
“...ragione che a nessuno di noi interessa in modo particolare.” lo interrompo, cercando di fargli capire che averlo attorno al momento è allettante quanto l’idea di una visita ginecologica.

“A me interessa...” ridacchia Leo e, in risposta, riceve uno scappellotto da Bet, seguito da un “Ma i cazzi tuoi te li fai mai?”

“Scusate, starei parlando!” protesto additandoli mentre si danno dell’ idiota vicendevolmente e Alex, accanto a me, mugola:
“Non è bello quando non ti lasciano finire di dire qualcosa, vero?”

Un’ imponente ondata di irritazione mi sale dal fondo delle vene quando mi rendo conto che nessuno mi permette di congedarmi con la velocità che avrei voluto e, scegliendo consciamente di ignorare la frecciatina di Alex, torno a comunicare con il resto del tavolo.

“Ragazzi, grazie per la bella serata ma sono un po’ stanca...”
“E provata dagli eventi, suppongo...” avanza Roby sorridendo comprensivo mentre Jules completa la frase a modo suo, domandando:
“...dagli eventi successi nel bagno?”

Io inspiro spazientita e mi strofino il viso con entrambe le mani: perché sono saltata addosso a quest’imbecille? Sarebbe stato più semplice andare a complimentarmi con L per l’evidente prestanza fisica del suo compagno per la serata.

“Ce ne possiamo andare?” chiedo arrendendomi al peso emotivo dell’ultima mezz’ora e sperando in un’ approvazione generale.

Cerco gli occhi di Bet e poi quelli di Jules e, in una frazione di secondo, sembrano capire che se non esco da questo pub potrei trasformarmi in Robocop e sfogare la mia frustrazione su chiunque. Un bersaglio a caso? Alex. O Jack, perché continua a fissarmi con quel sorrisetto consapevole.

“Voi andate, noi magari restiamo un altro po’. Si sa mai che riesco a trovare qualche fanciulla interessante e tirare su patata, come dicono i giovani oggi.” risponde Leo gonfiando il petto e raddrizzandosi sulla sedia.
“Innanzitutto nessuno dice tirare su patata al di fuori del fratello di Med. E in secondo luogo tu puoi tirare su patata come io posso sopportare l’idea di indossare le tue scarpe puzzolenti...” risponde Jack alzandosi dalla sedia “Vado a ordinare due birre per me e Roby: voglio proprio godermi i tuoi ridicoli tentativi di seduzione.”

Le mie amiche si infilano veloci i cappotti e aggirano il tavolo per raggiungermi.

Alex si allontana da me e Armani Code, per una frazione di secondo, invade l’aria che mi circonda, costringendomi a smettere di respirare.

Cosa cazzo mi è saltato in testa?!

Raccatto tutte le mie cose evitando accuratamente di incontrare il suo viso, evidentemente fisso su di me, e saluto rapidamente i miei amici, promettendo di farmi sentire presto.

Bugia. Grossa bugia.

 Lo so io e lo sanno anche loro: per mia fortuna, però, scelgono di non palesare la cosa e ciò mi permette di girarmi verso l’uscita per seguire Bet e Jules, borbottando a Alex:
“Ci vediamo a casa.”

Ma lui, che deve sempre avere l’ultima parola, mentre io mi allontano, risponde a mezz’aria:
“Lo spero bene. E forse lì mi sarà concesso di finire di parlare.”

Ero lontana di qualche passo ma abbastanza vicina da cogliere l’ennesima frecciata: grazie ad Odino posso fingere di non averlo sentito e, senza indugiare oltre, spintonando qua e là per farmi strada nel fiume di gente, raggiungo l’uscita con le mie amiche.

“Che è successo?” domanda Bet una volta richiusa la porta del pub dietro di noi.
“Niente.” ribatto secca, camminando velocemente in direzione del parcheggio.
“Med...”
“Niente, Jules.”
“Devo andare a chiederlo ad Alex?” chiede ridacchiando e Bet si unisce a lei rumorosamente.
“L’ho baciato.”

Si bloccano in mezzo alla strada e le loro risate si spengono: mi fissano inebetite e stupite e un senso di potere mi invade. Non capita molto spesso che io riesca a zittire entrambe e, per la singolarità dell’evento vorrei tornare nel pub ad annunciare a tutti questo mio enorme successo. Poi mi ricordo che lì c’è ancora Alex - e forse pure L, benché non me ne sia più curata - e che, forse, sta per uscire: l’idea di sbatterci contro non è poi così allettante, ragion per cui opto per la soluzione più semplice.

“Qui urge una riunione sul cofano della Circe. Andiamo a prenderla a casa mia e poi andiamo a nascondermi da qualche parte.” annuncio ricominciando a camminare e sentendo i passi delle mie amiche, ancora attonite, alle mie spalle.

La Circe è la mia sacra macchina, della tenera età di 15 anni, a cui sono affezionata più di ogni altro oggetto al mondo. È ormai un rottame, ma abbiamo trascorso i momenti migliori, noi tre, immerse in profonde discussioni adolescenziali e non, sigarette alla mano, sedili reclinati e piedi appoggiati sul cruscotto di quella macchina.
È vecchia e assolutamente out, ma è cresciuta con noi.
Quella macchina ha assorbito ogni nostro respiro, nell’intimità di confessioni e confronti tra tre amiche, a volte spaventate, altre sconsolate, altre ancora semplicemente confuse.
La Circe è ricordo fisico di nottate trascorse al buio delle strade vuote del centro, sussurrando parole che non avrebbero mai lasciato il metallo di quel tempio con le ruote. Ricordo di anni passati a combattere contro un mondo che non capivamo. Monito perenne di quello che eravamo e di quello siamo diventate.
La Circe è una cosa solo nostra, siamo noi: e, soprattutto, è il nostro posto preferito in cui rifugiarci quando qualcosa ci turba.

Un’ora più tardi io, Jules e Bet siamo sdraiate sul cofano caldo della Circe, guardando il cielo nero, alla ricerca disperata di qualche stella, in un confortevole silenzio.

“Quindi... l’hai baciato, brutta porca.” chiede d’un tratto Jules rompendo la tranquillità in cui eravamo immerse e facendo nascere una risatina dal fondo della gola di Bet.
“Che ci sarà mai di così divertente?”
“Ad esempio il fatto che millanti di odiarlo: se ti fosse stato simpatico che gli avresti fatto? Un pompino sull’uscio di casa il secondo giorno in cui condividevate l’appartamento?” ribatte la mia amica bionda in preda all’ilarità e ridendo sempre più forte, mentre Jules allunga una mano verso di lei e si battono il cinque.

“Ma... non l’ho fatto apposta!” protesto stringendo i pugni per enfatizzare la mia posizione e mi accorgo che le mie parole suonano demenziali, al punto che devo abbassare la testa in segno di vergogna.
“Med, puoi dire tutte le cazzate che vuoi ma Alex non ha super poteri e questo non è un fantasy: nessuno bacia una persona solo per il profumo che indossa.” dichiara Bet e mi sventola una mano di fronte al naso.

Non so perché, di preciso.

Indicando a mia volta Jules e aumentando di un decibel il volume della mia voce mi lamento dicendo:
“Jules se ne è scopati per molto meno!”
“Ma cosa stai dicendo?!” si indigna la ricca alla mia destra e cerca di affondare le sue mani sporche di gelato dentro la ciccia che risiede da anni sui miei fianchi.

“Almeno a lei piacevano nella loro totalità. Erano brutti, ma a lei piacevano.”
“A starvi a sentire sembra che mi sia fatta l’armata Brancaleone!” borbotta Jules spingendo in fuori il labbro inferiore prima di ricordarsi che quella sotto processo sono io.

“Med, hai baciato Alex. Tipo, gli hai proprio tirato un limone in profondità, con tanto di maglietta levata e mano sulla cintura. Quello non era accidentale, amica mia. Quello è intenzionale e assolutamente condivisibile, se lo chiedi a me...”
“Ma ha parlato in inglese...”

“I guess drama is on the way...” mi sfida Bet, incrociando le dita sul petto e arricciando la bocca in attesa di un bacio. Poi, tenendola in quella posizione a culo di gallina, mi sfida:
“Dai, infilami la lingua in bocca... Su, illustraci come il solo suono della lingua inglese ti trasformi in Lady Mutanda Volante...”

Resto zitta fissandole con sguardo impassibile, mentre loro si sbellicano dalle risate e so che non hanno tutti i torti: non si bacia qualcuno solo perché indossa un profumo che ci piace e perché parla una lingua deliziosamente sensuale.

“Io credo che, in fondo, Alex ti piaccia...”
“No. Non mi piace. È uno stronzo. E in ogni caso io non sono quello che vuole lui... ‘sta faccia di cazzo.”
“... con un bel culo però e che sa pomiciare, a quanto dici.”
“Scusate, non avevo finito.” si ribella la psicologa accanto a me e ricomincia con la sua analisi “Lui ti piace, ma non è quello il problema. Il problema era L.” asserisce e spera, probabilmente, di ricevere qualche genere di reazione da me.

Io rimango imperturbata e non so se lo sono davvero o se sto innalzando una facciata.

“Ne parliamo?”
“Di che cosa? Della possibilità che le piaccia l’americano o di L?” domanda Bet al posto mio.
“Di L... Med, è comprensibile che tu sia scossa...”

Rifletto per una frazione di secondo e poi torno a guardarle, dicendo:
“In realtà non lo sono. Non più di tanto. Sono più che altro confusa e vorrei sapere se è gay o bisessuale.”

Loro sembrano sorprese dalla mia risposta e Bet si consola azzannando un Chicken Mc Nuggetz e chiedendo:
“Cosa cambia? Resta il fatto che gli piacciono anche i maschi. A me importa sapere quanto questo particolare ha effetto su di te.”
“Non è il particolare in sé che mi turba: vorrei sapere se ero una copertura o se gli piace sia la carne che il pesce. Se gli piacessero solo i ragazzi credo che avrebbe un impatto più forte sulla mia autostima...”

“Tesoro, non è qualcosa che puoi sapere per certo. Magari al momento non lo sa neppure lui.”
“Sì, forse...” mormoro facendo passare la lingua sulla superficie del mio labbro inferiore e contemplando le parole di Bet.

Poi con la mente mi distraggo sia dal problema di L che dal rifiuto di Alex e penso che per una sera ho accettato di uscire ed è stato un disastro.
Rimugino impercettibilmente - perché farlo seriamente è qualcosa che mi ingarbuglia l’anima ogni volta - su come sono diventata e su cosa sto facendo.

Io fuggo. Obiettivamente: posso raccontarmi tutte le balle di questo mondo e posso sentirmi vittima di un destino crudele finché mi pare, ma la verità è che se non affronto le cose non si sistemerà mai nulla.

Con la storia di L ci sono riuscita ed è stato anche molto più facile del previsto: ed è questo il problema. Credo che intimamente io sapessi che non era una questione troppo spinosa.

Ma affrontare me stessa, il mio futuro, le risposte che non so dove trovare e gli errori madornali che ho fatto? Tutta un’altra storia, gente.
Se poi aggiungiamo la paura di doverlo confessare e di renderne conto ai miei genitori e l’umiliazione di raccontarlo a chi mi circonda, il risultato è una Med fuggiasca assicurata.

“ Un penny per i tuoi pensieri.” mi bisbiglia Jules, accorgendosi della mia mancanza di coinvolgimento nella discussione.
Io ruoto il viso verso di lei e le sorrido, prendendo tra le dita uno dei suoi lunghi ricci e giocandoci.
“ Nulla. Tante cose.” rispondo soffiando sul riccio per vederlo rimbalzare lontano dal mio tocco.
“ Tesoro, deciditi o nulla o tante cose.” mi dice Bet, passando ripetutamente la mano sul cofano caldo della Circe e incrociando gli occhi di Jules.
Sui loro volti aleggia un'ombra di preoccupazione e vorrei saper scavare nel fondo della mia gola per tirare fuori parole che abbiano senso.

Ma non so come si fa.

E allora resto in silenzio per pochi secondi mentre loro attendono pazienti.
Poi torno a scrutare il velo buio sopra di noi e chiedo:
“Quando è successo che le nostre vite sono diventate così strane? Io mi ricordo quando eravamo piccole e la vita non era così ingarbugliata. I rapporti umani non erano così difficili. Le scelte da fare non erano così...definitive.”
“ Med, che ti prende? Non stai più parlando di Alex e L adesso.” sussurra Jules con una delicatezza che raramente le appartiene, prima di domandare:
“ Stai parlando di te?"
"Perché ti è così duro ammettere che stai male, Med?” mi chiede Bet mettendosi a sedere e abbandonando sul parabrezza il cartone di gelato ormai sciolto.
“ Perché ammetterlo implicherebbe doverlo affrontare.” la mia voce esce flebile come la colpa che sembra avvolgere la mia confessione e non so frenare l'imbarazzo che mi si scioglie nello stomaco.

A che pro? Con loro non servono gli scudi. Mi leggono dentro. Sempre.

“ E perché questo ti spaventa? Non vuoi stare meglio?” domanda silenziosamente Jules, quasi intimorita dalla risposta che io potrei dare.

Voglio stare meglio? Forse no. Forse è più comodo fingere che tutto questo insopportabile disagio non l’ho costruito con le mie mani: è più facile pensare che non ho fatto scelte che mi hanno portata qui.

È più semplice pensare di non aver complicato le cose con il mio insopportabile - ma parecchio allettante - coinquilino; ed è più comodo credere di aver agito senza pensare.

“ Voglio stare meglio, voglio capire cosa c’è che non va. Voglio scoprire chi sono davvero e cosa voglio. Ma ho paura di farlo... Ho paura di realizzare che non sono mai stata me stessa e sono terrorizzata all’idea di rendermi conto che la vera Med non mi piace affatto.” rispondo, facendo ciondolare le gambe nel vuoto oltre il cofano della mia automobile.

C’è un silenzio innocente e irreale attorno a noi. E il fatto che tutte e tre teniamo il volume della voce così basso, non volendo violare la quiete di questo istante, mi fa sorridere.
“Med, è una paura che tutti prima o poi abbiamo. Io temo che sia qualcosa che va più in là del semplice timore. Ma non credo tu sia ancora pronta a sentirmi pronunciare quella parola.” bisbiglia Jules, scostandomi i capelli dagli occhi mentre io annuisco flebilmente.
Credo di aver capito di che cosa parla, ma non sono davvero pronta a dare un’etichetta al mio fottuto disordine emotivo e psicologico.

Non ancora.

“Jules...” rispondo incrociando per un secondo i suoi occhi cioccolato e lei scuote la testa.

“Che ne dici se vieni a dormire da me stanotte?”
Io sposto lo sguardo verso l’alto, annuendo, e sospiro un banalissimo “OK”.

Ma per loro è più che sufficiente. Loro mi conoscono. Non hanno bisogno di altre parole. Loro sanno tutto di me.
Conoscono il valore dei miei silenzi e il significato delle mie dita che torturano una ciocca vicino all’attaccatura dell’orecchio: sanno che stanotte non troveremo le risposte che i miei genitori tanto vorrebbero.

Ma hanno ben chiaro che l’ultima dichiarazione di Jules ha portato tutto ad un livello più alto.

Restiamo zitte ancora per un po’, l’unico rumore che si sente è quello del vento che canta attraverso le foglie di un albero solitario accanto a noi.

Poi Jules salta giù dalla Circe, apre entrambe le portiere anteriori, si infila nella macchina e accende la radio, alzando il volume al massimo.
Torna a sdraiarsi accanto a me e la pace di questa notte viene improvvisamente rotta dalle note di “Oh Carol” che riempiono l’aria e le nostre orecchie: ci sarebbero milioni di cose da dire e infiniti silenzi da analizzare me questa notte mi concedo una tregua.

“Andiamo a nanna?” chiede Bet, scendendo dal cofano e porgendo una mano a me e una a Jules, ed entrambe ci lasciamo aiutare a tornare per terra prima di infilarci in macchina e portarla a casa.

Quando arrivo all’appartamento di Jules sono così stanca che penso di non arrivare neppure al letto senza cadere in uno stato di semi-coma: la mia amica si diverte a spegnere le luci ogni volta che entro in una stanza, rendendomi l’impresa di raggiungere il bagno ancora più complicata.

Per quattro volte di fila sbatto contro qualche ostacolo: alla quinta il mio malleolo subisce le conseguenze dello scherzo della cretina che mi segue e mi ritrovo a imprecare contro di lei e a confessare che se non la pianta, sarò costretta a fare la pipì in una delle altre stanze.

Alla mia ammissione Jules pare essere colpita da un moto di pietà e mi conduce velocemente al bagno, richiudendosi la porta alle spalle e raccomandandomi di centrare il buoco.

Mentre mi sciacquo il viso per liberarmi dai pochi residui di trucco, dentro di me spero di riuscire a cancellare qualche traccia degli eventi di stanotte: non credo che sarei in grado di dare una forma verbale alle sensazioni che si sono susseguite dentro di me, ma so che sono arrivata al capolinea delle scuse.

C’è qualcosa di terribilmente gelido nel fondo del mio stomaco da un po’ di tempo a questa parte e, più ne nego l’esistenza, più si diffonde nei tessuti del mio corpo e, soprattutto, in quelli del mio essere: a volte penso sia semplice paura, altre credo si tratti di inadeguatezza.

Dicono che essere scontrosi porti a restare soli e, più penso a me e ai miei recenti atteggiamenti, più temo che un giorno mi sveglierò e neppure Bet e Jules avranno resistito: se continuo a scappare da tutti e da tutto potrei scoprire che non era “la vera Med” che non piaceva agli altri, quella che ho tanto paura di esplorare. La realtà è che il mio costante stato di fuga mi permettere di fingere: ma se un domani tutti gettassero la spugna, sarebbe solo per colpa della Med di oggi.

Il tempo stringe, le corde si tirano, i mesi passano e io mi devo decidere: non esiste nessuno al mondo oltre me stessa che può guardare dentro quel gelo e capire perché è lì.

Solo io. Perché sono stata io a metterlo lì: l’ho creato con gli anni di silenzi, con le mie insofferenze, con l’incapacità di reagire come avrei dovuto. Con la totale mancanza di fiducia e di stima in me stessa.

E ora la vita mi chiede il conto: il problema è che non voglio fermarmi a pensare davvero neppure per lei.

“Sei stata risucchiata dal mostro del gabinetto?” grida Jules da dietro la porta e io sussulto, forse colpevole di non riuscire a esternare queste emozioni o forse solo grata alla mia amica per avermi offerto l’ennesima occasione di fuga da me stessa.

“Arrivo.”
“Senti, io non ho nessun pigiama più vecchio del 2010 quindi ti ho preparato l’elegantissima tuta da yoga che ha scartato mia madre... È orrenda. Ti sentirai a tuo agio.” risponde lei, aprendo la porta e sventolandomi sotto il naso un completo color caco marcio.

“Questa è brutta persino per me...” sogghigno, afferrandola e levandomi in fretta gli stivali mentre Jules mi trascina verso il letto.
“Poche storie. Di fronte ai tuoi pigiami, questa è alta moda.”

Io scuoto il capo e mi arrendo all’unica possibilità di non dormire nuda e, una volta infilata la tuta, constato che è deliziosamente comoda; mi intrufolo sotto il piumone di Jules e lei mi si raggomitola contro, in cerca di calore mentre io provo a tenerla lontana.

“Buona notte testa vuota!” le rispondo mettendo un cuscino in mezzo a noi e ridacchiando vittoriosa.
Lei allunga la mano in un moto di tenerezza - di solito più caratteristico di Bet - e, facendomi una carezza sui capelli, sussurra:
“Notte a te, amica.”

Poi, con la consapevolezza che presto dovrò mettere ordine dentro la mia anima, lascio che lo stress di questa serata scivoli via dalla mia mente e lasci spazio ad un sonno che, spero, sia - per una volta - ristoratore.

Mera illusione: non lo è principalmente perchè Jules ha delle lunghe conversazioni con se stessa nel sonno e perché, più di una volta, benché addormentata, ha discusso con la sottoscritta sul fatto che io mi sia indebitamente appropriata della sua parte del letto e che, sempre secondo la Jules dormiente, io potrei in realtà essere un’agente dell’area 51, inviata fino al suo materasso per svelare la sua possibile natura aliena.

L’indomani mattina, nonostante le mie ripetute suppliche di offrirmi asilo politico finché io non mi sia procurata uno di quegli affari sparaflasha memoria che ci sono in Men in Black, così da poter evitare qualunque tipo di imbarazzante confronto con Alex, Jules decreta che io e il mio “atteggiamento evitante” dobbiamo abbandonare la quiete della sua casa.

“E se lui è là?!” mi lagno restando agganciata alla maniglia della porta del suo appartamento.
“Considerando che ci vive prima o poi ci sarà là...” risponde lei a denti stretti mentre mi spinge con tutta la forza che ha e cerca di liberare la suddetta maniglia dalla mia morsa.

Sono Iron girl: c’ho la presa d’acciaio. La stretta che ti uccide. E il coraggio che ti seppellisce, lo so: un difetto ce l’ha ogni super eroe.

“Io a casa, se c’è quello, non ci vado!”
“Oh, eccome se ci vai!”
“No, non mi puoi costringere.” e alla mia affermazione lei aggrotta la fronte con aria di sfida, azione alla quale mi limito a rispondere con una linguaccia e poi guardandola con occhi di supplica.

“Quanto sei immatura! Ora o stasera che cosa cambia?! Prima o poi ci dovrai parlare!”
“Per sentirmi dire di nuovo che lui non mi si vuole fare, umiliandomi per l’ennesima volta e facendomi sentire molto molto piccola?”
“Io resto convinta che ti si voglia fare e che una spiegazione ci sia.”

“Certo, come no. La spiegazione è che probabilmente mi avrebbe lasciato fare se avessi avuto venti chili di meno e una personalità più docile.” borbotto riguadagnando terreno all’interno dell’appartamento della mia amica.
“Sulla personalità più docile non posso che convenire. Sul sovrappeso un po’ meno, visto che mi pare che il suo piacevole corpo da americano da esposizione abbia risposto positivamente ai tuoi accumuli di ciccia e lardominali.”

“Stronzate...”
“Senti, e se chiamo a casa vostra per vedere se c’è? Se non c’è ti levi dalle palle?” propone alla fine rinunciando a battere la mia presa di ferro e sospirando distrutta.
Alla sua proposta mi rilasso e lascio finalmente andare la maniglia, annuendo.

“Che cavolo di bambina che sei!” e si allontana dalla porta per raccogliere il telefono dal tavolo da pranzo; compone rapidamente il numero di casa mia e resta in silenzio in attesa, osservandomi con aria di stizza.

“Siamo al nono squillo: possiamo dedurre che non c’è e te ne vai, o cosa?”
“Magari ha il sonno pesante, aspetta ancora un attimo.” ribatto portandomi il pollice alla bocca e rosicchiando un’unghia.

“Ok, ora basta. Alex non c’è e tu ora vai a casa e aspetti che torni. Ci devi parlare e devi stare a sentire cosa diamine ha da dirti riguardo al vostro conturbante limone, va bene?!” esclama spazientita, tenendo ancora il ricevitore appoggiato all’orecchio e parlandoci dentro.
“Squillo duemilaquattrocentoquarantaquattro. Alex non c’è. Vattene!”

Con aria atterrita acconsento ad abbandonare casa di Jules per tornare alla sicurezza del mio appartamento, ma solo perché ho appurato che l’oggetto dei desideri dei miei ormoni - solo loro, ovviamente, assolutamente non mio - non è là ad attendermi.

Quando arrivo sul pianerottolo di casa, giusto per sicurezza, appoggio l’orecchio sulla porta e sto in attesa qualche secondo, pronta a cogliere il più impercettibile rumore che mi faccia sapere che lui è rientrato. Nada. Silenzio tombale.

Sono salva, grazie a cielo.

Infilo la chiave nella toppa e la faccio ruotare con fatica due volte in senso orario, tirando l’ennesimo respiro di sollievo; poi abbasso la maniglia e, ora finalmente serena, apro la porta e faccio un passo dentro casa, accingendomi a richiuderla alle mie spalle e, mentre un senso di sicurezza e protezione si diffonde lentamente dentro le mie ossa, un cigolio che ben conosco, riattiva tutti i miei sistemi d’allarme.
Con fastidiosa rapidità, in salotto compare la figura - recante un goloso paio di jeans, un maglione blu e un paio di converse verde bottiglia - di Alex che, mani in tasca, mi guarda in silenzio mentre una luce vittoriosa adorna i suoi occhi e un’espressione consapevole lascia intendere che sapeva sarei arrivata presto.

Io resto imbambolata qualche momento a fissarlo, confusa dal suo atteggiamento, e lui, in risposta, solleva il mento verso l’alto e accenna un sorriso di sfida.
Torno rapidamente in me e i miei sensi gridano una sola cosa:

“Fuggi, cretina!”

Provo a girarmi per riguadagnare l’uscita il più in fretta possibile, consapevole di quanto sciocca questo gesto mi farà apparire, ma per nulla turbata dalla cosa: meglio quello che essere di nuovo costretta a sentire perché non sono soggetto scopabile agli occhi di un maschio.

Colpendomi, chiaramente, l’alluce con l’angolo della porta (e resistendo al desiderio di imprecare), sono quasi riuscita ad aprirmi del tutto una via di fuga, quando entrambe le mani di Alex sbattono con vigore contro il legno, richiudendo la porta e privandomi dell’unica possibilità di sfuggirgli.

“Non così in fretta, signorina.”

L'imbarazzante piacere del TuttoTondoOnde as histórias ganham vida. Descobre agora