Come quando hai sete

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Quando mi sveglio la mattina seguente, Alex è già uscito di casa. Sulla sedia accanto al letto ci sono i miei vestiti della sera prima asciutti e piegati. Sopra c’è un biglietto che dice:

Hai russato divinamente. Nelle pareti del salotto rimbombavi così forte che quasi non ho chiuso occhio. E, tra l'altro, sei violenta anche nel sonno. Nottata magnifica.

Seguito da un post-it con una faccina che sorride.

Io mi metto a ridere e mi alzo. Mi fanno male gli occhi e mi scoppia la testa. Ma non voglio distrarre Bet nel suo ultimo giorno di studio; le racconterò cosa è successo dopo l’esame. La sento ripetere ad alta voce dalla mia camera così, il più silenziosamente possibile, mi preparo ed esco di casa, determinata a trovarmi qualcosa da fare per tenermi impegnata fino a sera ed optando per rinchiudermi in biblioteca a fingere di studiare.

Camminando per strada mando un messaggio a Jules avvisandola che L ne ha fatta una delle sue e che urge una riunione a base di pizza, al quale lei risponde con un:

Sei anche nella fase di negazione da anni. Servirà anche il karaoke. Vi aspetto domani sera da me.

Fase della negazione. Da anni.

Non penso la mia amica si renda conto di quanto effettivamente abbia ragione e, mentre ci rifletto, sento le mani che si stringono in due pugni, per poi rilasciare la tensione e rilassarsi. Io non ho grandi scuse da accampare o forze superiori di incolpare.

Ho fatto tutto da sola. Come sempre, d’altronde. Nella vita, apparentemente, i danni li ho sempre causati con grande maestria e con un’incredibile consapevolezza.

Vi siete mai sentiti estranei nella vostra pelle? Come se non riconosceste la persona che vi abita dentro? O, quantomeno, non apprezzaste le scelte che fa?

Io da sei mesi a questa parte non sono assolutamente in accordo con la parte di me che sembra essersi arrogata il diritto di parola sulle decisioni importanti.

No, galattica balla. Sono anni che questa cosa va avanti ma sta avendo ripercussioni emozionali sono negli ultimi mesi.

È come se io non sapessi più davvero cosa voglio, cosa mi piace, cosa mi fa stare bene. O, probabilmente, non l’ho mai saputo.

Una volta mi importava davvero di quello che gli altri pensavano di me: no, più precisamente era fondamentale la loro approvazione. Come se, attraverso il loro giudizio positivo, io mi sentissi legittimata ad apprezzare me stessa.

Sì, ci sono dei colossali crateri nella mia sicurezza e autostima: francamente, se non fosse perchè ne parlano tutti, credo che quest’ ultima parola sarebbe insignificante per me.

Ho sempre vissuto nella speranza di compiacere gli altri, ma non capivo come fare. Era sempre come se ci fosse qualcuno più simpatico di me, più intonato di me, più volenteroso, più brillante e - la costante immutabile - più magro.

Perciò, quando ho capito che naturalmente non ero in grado di soddisfare le loro aspettative, ho iniziato a modellarmici sopra, a dare agli altri quello che volevano: le bambine permalose non piacciono a nessuno? Perfetto, quelle divertenti e autoironiche riscuotevano grande succeesso: e allora io sarei stata autoironica.

Più o meno il modus operandi era questo: studiavo le reazione degli altri alla vera me, poi prendevo atto del loro entusiasmo di fronte agli altri e, infine, assumevo l’atteggiamento stimato. E improvvisamente erano tutti contenti. Tutti tranne me: perché con gli anni non c’ho capito più nulla e ho smesso di comprendere cosa ero e cosa volevo.

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