15 (Parte prima)

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«Sarà meglio accamparsi qui», chiosò Shree.

Gleb non sembrava a suo agio. Alzò gli occhi e si guardò intorno. Le sagome degli alberi parevano incise sullo sfondo di un cielo cupo, creature morte prima ancora che lui nascesse.

«M-m-m... ma qui siamo all'aperto...».

Lei sollevò un angolo della bocca, regalandogli un sorriso beffardo. «Non ti sfugge proprio niente, eh?».

Lui infossò il viso nel petto, scalciando via con la punta dello stivale un sassetto. Si stringeva le braccia al petto e si muoveva spostando il peso da un piede all'altro, forse per scaldarsi, forse solo per vincere la timidezza.

«Non sei un tipo di molte parole tu, vero?», commentò lei.

Il silenziò accompagnò le sue parole per un tempo tanto lungo, che alla fine Shree rinunciò a una risposta. Si voltò e si guardò intorno. Poco distante, la sagoma di un albero caduto catturò il suo interesse. La pioggia si era portata via quasi tutta la corteccia, col risultato che l'anima dell'albero era esposta, lucida come fosse stata levigata.

«Qui andrà benissimo», annunciò. «Questo tronco è abbastanza grande da proteggerci e per sistemare questo». Senza aggiungere altro, tirò fuori dallo zaino un telo incolore. «Dammi una mano».

Gleb restò immobile a guardarla.

«Allora, ti decidi o no? Vorrei provare a passare la notte all'asciutto, se ci riesco».

«C-c-che... che devo fare?». «Cerca qualche bastone». «Qua... qualche bastone?».

Per un istante, Shree pensò che la stesse prendendo in giro.

L'espressione innocente sul viso dell'altro, però, la convinse di no. Si armò della poca pazienza che ancora possedeva. «Ascolta, Gleb... è questo il tuo nome, giusto?».

Lo schiavo annuì, poi si affrettò a chinare la testa come se si vergognasse.

«D'accordo. Allora, Gleb devi trovare dei rami, perché voglio tirare su una specie di tenda, se ci riesco. E vedere se possiamo passare una notte all'asciutto».

Lui annuì come sempre. Restò ancora un attimo immobile come a volersi sincerare che non ci fosse altro, poi si voltò e si mise al lavoro. Shree lo seguì con lo sguardo, non potendo fare a meno di domandarsi se Leif avesse avuto ragione a dire che era ritardato. Al momento propendeva per il sì.

Scacciò quei pensieri e tornò a concentrarsi sul telo. Piazzò un paio di pietre a fissare i due angoli estremi sopra il tronco e, mentre si voltava per decidere che fare degli altri due, si ritrovò davanti la sagoma di Gleb. Restò interdetta al pensiero che non l'aveva sentito avvicinarsi, ma la vista dei tronchi portò i suoi pensieri verso questioni più concrete.

«Sì, questi dovrebbero andar bene per il nostro riparo di fortuna. Ora cerca della legna asciutta per il fuoco».

Si attendeva l'ennesima replica, che stavolta non arrivò. Lo schiavo scomparve di nuovo. Shree tornò a occuparsi della tenda, ma con la mente rivolta a Gleb.

I sacerdoti di Nergal sostenevano che fossero stati gli eretici come lui a scatenare il morbo. Ma c'era anche chi diceva che si fosse trattato di un castigo divino o, ancora, chi parlava di un fatto casuale. Per Shree, comunque, l'unica cosa che aveva senso era che la Morte nera esisteva e aveva distrutto il mondo. Tutto il resto erano chiacchiere.

Dopotutto per lei Nergal, così come gli dei pagani, era solo una superstizione. Non aveva mai creduto in un dio capace di influenzare la vita delle persone, un dio in grado di assegnare premi e punizioni in base alla condotta di ciascuno. E perché mai un uomo avrebbe dovuto venerare un dio che andava ringraziato, se le cose andavano bene e contro cui non si poteva infuriare, se invece le cose andavano male? Troppo facile così. In quel modo perfino lei, una comune criminale che viveva di espedienti, poteva fare il dio. Shree aveva sempre creduto in due sole cose: nel denaro sonante e nelle persone. Erano le azioni degli individui a decidere il corso degli avvenimenti.

Gleb lasciò cadere una manciata di rami e fu il lieve sbatacchiare del legno a destarla dai suoi pensieri. Guardò gli arbusti e poi lo schiavo.

«Comincio davvero a chiedermi se il cervello ti funzioni, ragazzo. Ho il sospetto che sono andati un po' troppo a fondo con il taglio sulla fronte. Ti rendi conto che hai appena buttato i rami asciutti nel fango?».

Lui restò a boccheggiare, ma senza dire nulla.

«Va' a cercare qualche altro ramo e, per l'amore del tuo dio, ti prego di usare un po' la testa!».

Lo schiavo si voltò, le gote accese forse dalla vergogna. Shree scosse la testa mentre finiva di sistemare quel misero riparo giusto in tempo per vederlo tornare. Prima che Gleb potesse commettere ancora una volta lo stesso errore, si alzò e gli tolse di mano la legna. Non era molta ed era quasi tutta umida, ma di meglio non avrebbero trovato. Pochi minuti dopo, un sottile filo di fumo annunciò che avevano il fuoco.

«Tieni, mangia». Gli porse un po' di carne secca e un pezzo di pane. Gleb afferrò il cibo con mani tremanti.

Qualcosa le suggerì che non tremasse di freddo, quanto piuttosto di timidezza. Lui parlava poco e sembrava sempre perso nei suoi pensieri; ma aveva modi educati che rappresentavano una rarità. «Sei un tipo strano tu, te l'hanno mai detto?».

Lui annuì senza smettere di masticare e senza sollevare gli occhi dal terreno. Una mollica si staccò dalla fetta di pane e rotolò lungo la tunica. Lui attese che si fermasse, poi la raccolse e se la portò alla bocca. Mangiava piano, a volersi gustare ogni singolo boccone.

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