XXXIV.

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Per qualche motivo che ignoro mi piaci moltissimo. Molto, niente di irragionevole, direi quel poco che basta a far si che di notte, da solo, mi svegli e non riuscendo a riaddormentarmi, inizi a sognarti.
Kafka

Jacopo è nato quando avevo ventidue anni. A quel tempo, pensavo che suo padre fosse il mio Principe Azzurro. Alto e magro, con un buon gusto per la moda e per il cibo salutare, erano i suoi paroloni a farmi perdere la testa. Si era trasferito a Lodi tanti anni prima, ma il suo accento calabrese non l'aveva perduto. Tutte le mie amiche lo vedevano con riluttanza, dicevano che era troppo montato, o che le sue sopracciglia pinzettate erano simbolo di omosessualità. Non vedevo nulla di male in lui; ero accecata dall'amore. Anche se mi faceva uscire con lui solo di mercoledì e mi teneva a distanza dai fast-food, obbligandomi a mangiare ortaggi e frutta a gogò, pensavo che ne valeva la pena, che per stare con lui dovevo farlo.

Carmelo era tutto tranne che il mio Principe Azzurro, ma purtroppo me ne accorsi tardi. Fu proprio l'ultima volta che andammo a letto insieme che il pensiero s'instaurò in me con prepotenza, fino a farmi venire i complessi in un momento così intimo. A letto Carmelo era violento, ma pensavo che lo fosse perché a lavoro era sempre stressato, e quindi mi facevo picchiare e stringere la gola perché lui così stava bene. L'ultima volta che andammo a letto insieme non mi sentii più bene. Fu terribile e ricordo ancora che in quel momento pensai: "perché sono qui con lui?".

Tre settimane più tardi il ciclo era irregolare per quantità: sembravano solo delle goccette, invece che la solita cascata da Mar Rosso che straripa. Così feci il test di gravidanza e la faccina sorridente mi guardò da quel display di un mezzo termometro, e sembrava beffarsi di me, come per dire: "ecco a te, ti sta bene!". Dopo l'ultima volta che avevamo fatto sesso non avevo più voluto vedere Carmelo, perché avevo molte idee confuse in testa e sapevo che se ci fossimo incontrati di nuovo mi avrebbe portata a letto. Così, quella stessa sera del test di gravidanza andai a casa sua. Era felice di vedermi, ma non mi accomodai, e restai nel pianerottolo delle scale a guardarlo.

«Devo dirti due cose» gli dissi, e lo vidi sbiancare immediatamente per la paura. «La prima, tra noi non può più funzionare. La scintilla si è spenta, ho aperto gli occhi, e non provo più nulla per te. La seconda, e sono sicura che ti piacerà di meno, è che sono incinta». Si aggrappò alla porta con fragilità, sconvolto dalle mie parole. «Ma stai tranquillo, la prossima settimana vado in clinica e abortisco.»

Lui annuì serio, mi ringraziò per essergli stata accanto e per aver scelto quella strada (l'aborto, s'intende), mi augurò buona fortuna e mi chiuse la porta in faccia. Tornai a casa fiera di me e felice.

La settimana dopo, però, non andai in clinica. Mi sentivo sola, svuotata, orribile. E sentivo che solo quel bambino che avevo nella pancia poteva farmi compagnia. Affrontai la gravidanza da sola, studiando all'università, e alla fine riuscii a prendermi la laurea e a crescere un bambino in modo felice e sano.

Jacopo non mi ha mai dato grandi preoccupazioni. All'asilo e alle elementari era sempre il primo della classe, giocava a calcio e studiava, andava a tutte le feste di compleanno e si divertiva moltissimo. Alle medie, cominciò a diventare pigro e dipendente dai videogiochi, e lo studio andò un po' a calare. Riuscì comunque ad arrivare alle superiori senza essere bocciato nemmeno una volta. I problemi arrivarono in seconda superiore. La scuola era cominciata da appena tre mesi che la professoressa di italiano mi aveva chiesto un colloquio. Quando avevo letto la richiesta, quella sera, a cena, gli chiesi perché mi volesse vedere.

«Bo'» mi rispose, guardando la televisione. «Quella è tutta stramba. Cioè, nel senso, è pazza. Tipo che secondo noi è sempre incazzata perché tipo non fa mai sesso. Dev'essere zitella.»

Sorvolai il vocabolario e la risposta di mio figlio (non andavo a letto con un uomo da quindici anni, eppure non ero mai incazzata) e accettai di andare a quel colloquio. Quando entrai nell'aula in cui la professoressa mi aveva dato colloquio, nel vedere quella donna seduta in modo elegante dietro una scrivania, mi sentii stringere le viscere dall'emozione. Fu tutt'altro che paura o ansia, per un attimo mi dimenticai di Jacopo. C'era solo quella bellissima donna, magra e dal viso scarno, che coi suoi occhi cupi sembrava volermi inghiottire in quell'abisso di buio, fino a farmi perdere la testa e i sensi. Le strinsi la mano con dolcezza, e fu quasi una dolce carezza. Non sapevo che cosa mi stava succedendo, se era una sensazione a pelle molto semplice o qualcosa di più singolare e profonda, ma mi sentii bene. restai immobile, a guardarla con ingordo sguardo curioso e confuso, a cercare di capire perché il mio istinto mi spingesse a reagire così e a cercare, nel medesimo tempo, di ricompormi, di far finta di nulla.

Le sfumature dell'amore||One-ShotWhere stories live. Discover now