XXVI.

104 13 1
                                    

Non posso esistere senza di te. Mi dimentico di tutto tranne che di rivederti: la mia vita
sembra che si arresti lì, non vedo più avanti. Mi hai assorbito. In questo momento ho la
sensazione come di dissolvermi: sarei estremamente triste senza la speranza di rivederti presto.
Avrei paura a staccarmi da te. Mi hai rapito via l'anima con un potere cui non posso resistere
eppure potei resistere finché non ti vidi; e anche dopo averti veduta mi sforzai spesso di ragionare
contro le ragioni del mio amore. Ora non ne sono più capace. Sarebbe una pena troppo grande.
Il mio amore è egoista. Non posso respirare senza di te.
John Keats


«Che cosa è successo quella notte, Giona?»

Giona si guardò le mani, nervoso. Non era la prima volta che gli facevano quella domanda, e non aveva mai risposto. Solo che quella volta era diverso, perché il tono di voce di quell'uomo era gentile e curioso, e non accusatorio.

Sollevò lo sguardo e si leccò le labbra, schiarendosi la voce. «Chi sei, uno strizzacervelli?»

L'uomo scosse la testa. Aveva i capelli brizzolati e tagliati corti, un naso appuntito e degli occhi piccoli e chiari, nascosti dietro una montatura di ferro e due lenti spesse. Le mani erano poggiate sul tavolo, ed era vestito elegante, con un completo slim fit in misto lana vergine mélange e seta. A giudicare dal taglio e dal colore, era di Hugo Boss. «Sono il tuo avvocato.»

Giona sollevò la testa, curioso. «Perché sei qui?»

Allargò le braccia, come per fargli notare qualcosa. «Per aiutarti.»

«Non voglio essere aiutato.» Giona si passò una mano nei capelli scuri, chiudendo un attimo gli occhi. «Chi ti paga?»

L'avvocato si appoggiò allo schienale della sedia. «I tuoi genitori. Me l'hanno chiesto loro». Si sporse poi in avanti, guardandolo negli occhi. «Mi chiamo Massimo De Giudici.»

Giona non lo guardò. «Okay.»

«Sai cosa vuol dire il tuo nome, Giona?»

Lui annuì. Sentiva il volto coperto da una maschera di silicone, nonostante non avesse nulla in volto, e uno strano senso di inquietudine nello stomaco. Si sentiva nel corpo di un'altra persona. Lui non era lì, lui non era nel corpo giusto.

«Giona era un profeta di Dio. Inizialmente rifiuta l'incarico di Dio, e viene gettato in mare ed inghiottito da un grande pesce, come Pinocchio. Dopo tre giorni e tre notte di preghiere, Dio fa scappare Giona, e lui diventa fedele e devoto profeta del Signore.»

Massimo annuì, rilassando le spalle. «Tu credi in Dio, Giona?»

Dalla sua gola uscì una risata roca. «No.»

«Perché?»

Giona si strinse le mani, come se avesse paura di perdersi. Avvertiva, ora, un senso di nausea in gola. «Lei cosa vede quando si guarda allo specchio, avvocato?»

Sorpreso, Massimo sbatté più volte le palpebre. «Come?»

«Io quando mi guardo allo specchio non vedo me. Quel mostro che vedo non è Giona. Ha sempre le mani sporche di sangue, e il volto è coperto da una maschera di silicone. Non riesce mai a togliersela, quell'uomo allo specchio, e se lo aiuto non accade lo stesso nulla. Sono intrappolato in un corpo straniero, forse. Io non lo so, non mi vedo mai. Lei mi vede, avvocato? Io non mi vedo.»

Massimo strinse gli occhi, stupito. «Perché parli di te in terza persona, Giona?»

«No, no!» Sbottò, nervoso. «Non sono io, no. Non sono io. Quello lì non sono io.»

«Okay, okay, stai calmo.»

«Non sono io, no, non sono io.»

«Va bene». Sollevò le mani in alto, gentile. «Ti chiedo scusa.» Sospirò. Era più che evidente che l'imputato non era lucido. Avrebbe detto al giudice che era un soggetto instabile e avrebbe allora puntato su qualche strano farmaco che prendeva, dandogli la colpa. Gli avrebbero dato massimo quindici anni di carcere, e la cosa sarebbe finita lì.

Si alzò dunque, sicuro di sé, e si incamminò verso la guardia che sostava davanti alla porta di metallo. Ma Giona, sorprendentemente da ciò che si aspettava, parlò.

«Stavamo facendo l'amore.»

L'avvocato si voltò a guardarlo, stupito. «Come?»

Aveva la testa china e si torturava le mani. «Era l'una, credo. Stavamo facendo l'amore. Poi non so cos'è successo. Ha cominciato a dire che mi aveva tradito, che era l'ultima volta che sarebbe entrata nel mio letto. Rideva, poi. Io ero dentro di lei, e iracondo ho cominciato a stringerle i fianchi e andare sempre più forte, dentro e fuori, come se volessi spezzarla a metà. Lei rideva, poi ha preso a urlare di dolore, e il suo viso è divenuto brutto, scuro. Non era più la mia amata. Le ho stretto le mani attorno alla gola e ho cominciato a stringere, sempre di più, perché mi aveva tradito e non mi voleva. E poi è diventata rossa, e le vene in fronte si sono gonfiate, e poi ha smesso di respirare. Mi sono allontanato e sembrava star dormire, la mia Michela. Era così bella, Dio. E come l'amavo. Le ho baciato la fronte e mi sono coricato al suo fianco per dormire. Ma quando poi ho sentito che non mi abbracciava durante la notte, e che era fredda come ghiaccio, mi sono svegliato e ho chiamato un'ambulanza. Magari si era sentita male, i-io non saprei. La polizia è arrivata subito dopo e mi ha arrestato, e urlavano, Dio come urlavano. Mi sono guardato nei finestrini scuri della volante e ho visto un uomo con la maschera di silicone e le mani piene di sangue. Non ero io. Io me ne sono andato. Io non l'ho uccisa. Io non ho fatto niente.»

Massimo si passò una mano in faccia, nervoso. Aveva confessato, quindi era colpevole. Doveva assolutamente aggrapparsi a qualche scusa riferita ai farmaci, o avrebbero perso la causa.

Annuì, sconfortato, e se ne andò, senza aggiungere mezza parola.

Giona restò solo, davanti a un tavolo freddo, intrappolato in un corpo che non era suo. Una guardia lo prese e lo scortò fino alla sua cella. Lo spinse in malomodo dentro e chiuse la porta metallica a chiave. Giona ascoltò bene il rumore della serratura, come per ricordarsi che era un prigioniero, ormai.

E quando sollevò lo sguardo, vide seduta sul suo letto Michela. I capelli neri erano lasciati liberi e morbidi sulle spalle, gli occhi scuri brillavano. Le labbra erano pallide, increspate in una smorfia gentile. Gli sorrideva.

Strabuzzò gli occhi e si avvicinò a lei, con passi tremanti. «Michela, sei tu?»

Si alzò dal letto e gli andò vicino. Sembrava trasparente, pallida. La sua voce era gentile, calda. Proprio come se la ricordava. «Va tutto bene, amore mio. Sono qui con te, ora.»

Le accarezzò il viso, ed era freddo e sottile come ombra. «Lo sapevo che non eri morta» sussurrò, stringendo l'aria della stanza fredda.

Le sfumature dell'amore||One-ShotWhere stories live. Discover now