Capitolo 23

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Una settimana dopo avevamo ormai avvistato e superato altri otto villaggi in quelle condizioni, Jean si ostinava a volerli attraversare nel caso in cui ci fosse qualcuno che poteva essere ancora salvato mentre io, pur comprendendo la sua urgenza, avrei tanto voluto poter aspettare fuori o, meglio ancora, non essermi imbarcata in un'impresa del genere dal principio. Sebbene l'odore di fumo, carne bruciata e sangue mi restasse incollata addosso anche dopo essermi lavata, io avevo ricominciato a dormire senza essere perseguitata dagli incubi che mi facevano svegliare gridando e lui era tornato quello di sempre: il ragazzo che avevo conosciuto a casa di suo padre che seduceva tutte le serve e con la battuta sempre pronta.

Stavamo attraversando un tratto aperta campagna che ora era infestata di erbacce, nessuno coltivava più niente su larga scala nei territori vicino al confine perché quel poco che c'era veniva razziato regolarmente dalle truppe greche e straniere, quando scorgemmo un casolare, probabilmente i padroni, o affittuari, di quella terra. Erano giorni che non incontravamo anima viva dopo esserci allontanati dall'area più vicina al confine e io sentivo il bisogno di parlare con qualcuno che non fosse Jean, di qualcosa che non avesse a che fare con il posto da cui venivo o di quello che avremmo fatto dopo o le sue preoccupazioni riguardo la sua patria, per quando potessi amarlo.

Avvicinandoci notammo che alcune cose erano fuori posto: la porta era aperta e l'interno era buio, facemmo un giro intorno alla casa per vedere se magari avevano lasciato l'abitazione per piantare delle tende fuori dato che con l'arrivo della stagione calda era preferibile dormire all'aperto, ma ad un certo punto lui si fermò e andai a sbattere contro la sua schiena, avevo rinunciato da tempo di stare sempre al suo passo, mi sfinivo molto più in fretta facendo così. Tornò indietro senza dire una parola. Quando guardai anche io per vedere cosa lo avesse turbato tanto mi si offuscò la vista per le lacrime, ma mi imposi di non versarle per non turbarlo ancora di più. Andai da Jean che stava frugando nella casa, io rimasi sulla porta a guardarlo mentre apriva ogni singolo cassetto e lo richiudeva con forza eccessiva per poi avventarsi come una furia sulle ceste. Ci fu un pianto che lacerò l'aria e mi si accapponò la pelle mentre lui si bloccava in mezzo alla stanza sbiancando, magari pensando che il fantasma di uno degli occupanti della casa fosse rimasto a proteggerla. Tornò indietro e guardò più attentamente nell'armadio che aveva appena maltrattato. Quando si voltò verso di me aveva un neonato inferocito tra le braccia. Feci alcuni passi incerti verso di lui e allungai la mano per sfiorare appena la pelle rosso acceso del bambino che continuava a piangere disperatamente dalla fame.

"Non possiamo lasciarlo qui."

"Credo che sia una bambina, Jean. E non possiamo certo portarla con noi, quanti giorni sono che è qui da sola? Quanto che non mangia?"

"Preferisci lasciarla qui a morire? Con noi potrebbe avere una possibilità."

Giocava con la mia coscienza, sapevamo entrambi che non eravamo pronti ad una responsabilità del genere, spesso non avevamo niente da mangiare per giorni e dormivamo ai cigli delle strade, come potevamo costringere un neonato, che a ben vedere aveva già passato l'inferno, a una vita del genere? Voleva farmi sentire in colpa, sentimento che già provavo per aver anche solo suggerito di abbandonarla di nuovo a se stessa, ma portare quella bambina con noi avrebbe significato stravolgere tutti i nostri piani, le abitudini consolidate e trasformarmi in una madre a tempo pieno, cosa che avevo voluto accuratamente evitare dall'inizio del nostro matrimonio.

"Non posso farle da madre, sii ragionevole." mormorai disperata.

"Niche, qui troverà morte sicura. Probabilmente, come dicevi tu, sono giorni che non mangia, non puoi essere senza cuore."

Mi voltai per dargli le spalle: non avrei ascoltato ad una sola parola di quello che aveva da dirmi. Sapevo benissimo che se avesse voluto avrebbe potuto impormi la sua scelta e, secondo la legge del tempo, non avrei avuto altra scelta che obbedirgli, ma probabilmente dopo avermi sentito ripetere così tante volte il concetto di uguaglianza sociale stava cercando, a modo suo, di far prendere la decisione a me.

"Smettila Jean, torna in te e pensa a quello che mi stai chiedendo."

Posò la bimba, che nel frattempo si era miracolosamente calmata, e mi poggiò le mani sulle spalle come faceva quando voleva provare a convincermi, ero sicura che avrebbe voluto scuotermi energicamente fino a farmi fare come diceva lui. Cercai di ignorare i sensi di colpa che cominciavano già a torturarmi, ma prima ancora che pronunciasse una sola parola sbuffai e capitolai arresa:

"Va bene, ma se troviamo una famiglia disposta ad adottarla la lasciamo là! Non siamo adatti a fare i genitori..."

Sorrideva e mi abbracciò non appena ebbi finito di parlare, probabilmente sapeva meglio di me che mi ero già follemente innamorata di quella bambina. Sospirai e quando mi liberò dal suo abbraccio, da cui ammetto non avrei mai voluto sciogliermi, gli girai intorno per accosciarmi davanti alla neonata e studiarne la fisionomia, sbadigliò e il dito che si stava succhiando le scivolò dalla bocca, inconsapevolmente sorrisi davanti a quell'esserino che da allora sarebbe dipeso da me.

Per darle da mangiare avevamo scaldato un po' del latte che ci era rimasto e Jean aveva stretto l'imboccatura del piccolo otre di pelle in cui normalmente tenevamo il vino, quando riuscivamo a procurarcene. Probabilmente aveva due mesi, un miracolo che fosse sopravvissuta. Ripartimmo in silenzio con la bambina che dormiva placidamente nella cesta che portavamo a turno.

Rintocchi d'eternitàWhere stories live. Discover now