Capitolo 23

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C'era tristezza nella parole di Giuda, e amarezza, e dolore.

Non era la prima volta che lo sentivo partecipe della sofferenza umana, di quella che descriveva come cecità dello spirito, buio dell'anima.

Ma non c'era mai rabbia, giudizio o condanna nelle sue parole.

Era più lo sfogo amaro di chi vede una persona cara rovinare inutilmente la sua vita, cieco e sordo a tutti i segnali che invece sono lì, disponibili, pronti ad indicargli il sentiero verso quella pace e quella distaccata felicità cui ogni essere umano, nel suo intimo, tende naturalmente.

Lo guardai, mentre sorseggiava lentamente l'ultimo caffé, oramai freddo, prendendosi una pausa da quella che si era manifestata come una lunga ed intensa mattinata.

Guardai il suo viso, la sua espressione, partecipe al dolore di coloro che un tempo furono i suoi simili, ma sempre serenamente fiera, indomita.

Non era mai spavaldo, ed insieme non c'era mai una flessione nel suo essere, un momento di debolezza, un'esitazione, un'incertezza.

Ogni attimo di vita pareva, nel suo modo di essere nel mondo, unico ed irripetibile; ogni istante aveva la sua ragione di essere così come si manifestava, perfetto in se stesso, esattamente come era giusto che fosse.

Nella mia oramai manifesta imperfezione umana, continuavo a chiedermi quale fosse il segreto di tanta distaccata fiducia, se mai ci fosse stato un segreto e, nel caso, se un giorno ne sarei stato reso partecipe.

<<Forse>> pensai, <<nella sua situazione è più facile, perché mai un Angelo dovrebbe preoccuparsi di qualcosa, angosciarsi per un futuro sconosciuto, tormentarsi per un domani che non arriva mai?>>

Giuda mi si era infatti manifestato più volte come un essere privo di ogni paura, pur non escludendo dolore e morte.

D'altronde, faceva parte di un'elite di guerrieri, e partecipava attivamente alla peggiore delle guerre, la più sconvolgente, la più inimmaginabile.

Non era un gioco, lo avevo visto io stesso, era uno scontro terribile, eppure Giuda ne prendeva parte come se quella fosse l'unica cosa che doveva fare, aldilà dei possibili risultati, oltre ogni aspettativa di successo o preoccupazione di sconfitta.

Giuda si voltò verso di me, non disse nulla, ma mi regalò un altro dei suoi sorrisi profondi, che ogni volta avevano il potere di riscaldarmi il cuore.

Sapevo che i miei rimuginii mentali erano per lui come discorsi a voce alta, e quindi interpretai il suo sorriso come un commento amichevole, quasi divertito, alla mia impossibilità di fermare il continuo processo che si svolgeva nella mia mente.

Una cosa però era cambiata, solo alcuni giorni fa, solo poche ore fa, ad ogni suo sguardo mi sentivo imperfetto, sbagliato, inadeguato.

Invece ora avevo in qualche modo creato lo spazio per avere compassione di me stesso, per perdonare la mia natura imperfetta, per accettarmi come quel piccolo figlio dello stesso Dio: magari fallace, inconsapevole, ma pur sempre Suo figlio.

Giuda sorrise ancora, questa volta decisamente più divertito.

Io intanto, ripensando a tutta la chiacchierata appena conclusa, ero ritornato all'amara sorpresa di sapere che Gesù non aveva lasciato alcuna chiesa, e che quindi ciò che era stato insegnato per millenni non era ciò che colui che era stato mandato a salvarci aveva trasmesso ai suoi discepoli.

Nonostante io avessi lasciato la chiesa da oramai molti anni, nonostante fossi tutto tranne che un buon cristiano, notai come, in qualche modo, questa rivelazione mi avesse scosso.

Un Angelo di nome GiudaWhere stories live. Discover now